Continuando la nostra carrellata sulle strategie alimentari, troviamo pesci che si sono specializzati come mangiatori di invertebrati bentonici sessili, come coralli, ascidie, spugne, scegliendo una risorsa alimentare dallo scarsissimo valore nutritizio e piena di sostanze tossiche o comunque deterrenti. La maggioranza dei chetodontidi (pesci farfalla) appartiene a questo gruppo. Anche se alcuni non disdegnano invertebrati mobili, piccoli pesci o uova, molti di loro sono specializzati nel nutrirsi dei polipi dei coralli duri, a volte in modo esclusivo. La bocca piccola e prominente, con denti a spazzolino, è utile per penetrare negli spazi tra le ramificazioni dei coralli e staccare pezzi dei viscidi tentacoli, dei tessuti gelatinosi, a volte solo del muco superficiale. L’impatto dei piccoli morsi, ben distribuiti su territori ampi, è ridotto e subito riparato dal grande potere di rigenerazione della preda. E i pesci farfalla si spostano di corallo in corallo, muovendosi in coppia (sono strettamente monogami) e ripetendo in maniera incessante il movimento di mordere e strappare, forzati a questo dal limitato valore di ogni boccone.
I grossi pomacantidi (pesci angelo) mangiano spugne, come fanno spesso ma non esclusivamente gli zanclidi (famiglia che comprende una sola specie, Zanclus cornutus o idolo moresco).
Sia l’erbivoria che l’alimentazione su invertebrati sessili sono fenomeni nati in ambienti tropicali ad altissima diversità, tipici dei reef e di ambienti limitrofi. I pesci delle alte latitudini sono di solito mangiatori di plancton, di invertebrati mobili o di altri pesci, ed anche gli abitanti dei reef con meno biodiversità. Per esempio nella zona caraibica, dove la diversità non è elevatissima, non esistono pesci farfalla corallivori obbligati, che sono tipici dell’Indo-pacifico e soprattutto delle zone a biodiversità maggiore come l’Indonesia.
La comparsa di specie capaci di sfruttare risorse di scarso valore nutrizionale è recente nella storia evolutiva dei pesci, comincia dopo il Cretaceo, circa 50 milioni di anni fa. Una bella spiegazione di questo fenomeno chiama in causa diversi fattori. Le alte temperature tipiche del clima tropicale da un lato favoriscono la digestione nei pesci, animali eterotermi, permettendo di assimilare meglio sostanze difficili. Dall’altro aumentano il tasso di mutazione genetica, motore dell’evoluzione, rendendo più facile la comparsa di nuove specie e di nuove strategie. La stabilità ambientale tipica del reef da un lato favorisce il polimorfismo genetico permettendo a un maggior numero di mutazioni di sopravvivere, quindi accelera l’evoluzione. L’alto livello di interazioni tra animali, in particolare la competizione per il cibo, accresce il valore dell’abilità di usare alimenti scartati dalle altre specie, uscendo in un certo modo dalla competizione. Tutti i fattori concorrono a spiegare la nascita di strategie alimentari sempre più specializzate.
Modificazioni cospicue della bocca, dell’apparato dentale, sono alla base di specializzazioni alimentari da parte dei pesci che rendono la loro comunità tanto interessante: pensiamo solo alla differenza che esiste tra il pesce pappagallo bozzuto Bolbometapon muricatum, dal becco possente, e un qualsiasi pesce farfalla corallivoro: alla fine dei conti la risorsa alimentare che usano è la stessa, ma quanta diversità sta nel mezzo!
Ma fortunatamente ci sono anche invertebrati il cui valore nutritizio è maggiore, e sono soprattutto gli invertebrati mobili, soprattutto crostacei e molluschi.
Molti pesci specializzati in invertebrati mobili ricadono nella categoria detta dei durofagi. Infatti la protezione di una corazza dura, di una conchiglia, di un esoscheletro o dermascheletro, magari armato di spine è una strategia difensiva comune tra gli invertebrati. In termini evolutivi, la risposta dei predatori è stata quella di perfezionare apparati boccali potentissimi, con mascelle corte, muscoli robusti, denti incisiviformi a scalpello per staccare organismi che si attaccano tenacemente al fondo, denti molariformi potentissimi per ridurli a poltiglia assieme alla loro corazza. In molti casi un secondo paio di mascelle con denti a piastra completa il lavoro in fondo alla bocca, frammenti di conchiglia sono espulsi dalle fessure branchiali.
Tra i balistidi (pesci balestra) e tra i labridi troviamo molti esempi di durofagi. Lo sono anche tetraodontidi (pesci palla) e diodontidi (pesci istrice), che hanno evoluto strategie di caccia complesse, con la possibilità di soffiare un getto di acqua verso la sabbia per sollevarla e mettere a nudo crostacei o vermi che vi si nascondano. Esistono labridi, come Novaculichthys taeniurus, il labride voltapietre, specializzati per afferrare con la bocca grossi ciottoli di corallo morto e girarli di 180°, mettendo a nudo la parte inferiore che sovente ospita gustosi bocconcini.
I mullidi (triglie) localizzano prede nascoste sotto la sabbia usando due mobilissimi barbigli che hanno sotto il mento, e che sono contemporaneamente organi di senso tattile, olfattivo e gustativo (questi ultimi due sensi in ambiente acquatico sono separati da un confine assai labile, riguardando sempre e comunque molecole disciolte).
Spesso tutti questi pesci si seguono tra loro, comportamento basato sul principio che dove esista del cibo da sfruttare vale la pena di farsi sotto e unirsi al pasto. È comune vedere labridi, pesci balestra e triglie spostarsi assieme, magari accompagnati da pesci delle famiglie nemipteridi, pinguipedidi, letrinidi (altri cacciatori di invertebrati). Osservare i pesci che si seguono, spiano le mosse, imparano dagli altri (anche di specie diversa) ci mostra come il loro comportamento abbia molti elementi complessi e l’apprendimento attraverso l’osservazione, quindi una forma di trasmissione culturale, sia molto importante. Fino a non molto tempo fa la scienza ufficiale non attribuiva ai pesci capacità di apprendere e di memorizzare, ma le ultime scoperte scientifiche stanno rivalutando molto questi aspetti.
I dactilopteridi (pesci civetta) utilizzano i primi raggi della pinna pettorale come dita, per frugare nella sabbia alla ricerca di prede.
Testo e foto di Massimo Boyer