Quando un soggetto è in movimento l’occhio riesce a percepirlo attraverso una serie di indizi correlati all’acuità visiva di chi osserva l’azione: anche un’ombra fuggevole è in grado di lasciare il segno del suo passaggio sulla rètina, permettendo in qualche modo di captare la sua origine.
Se invece manca il movimento, l’identificazione visiva diventa problematica, poiché una qualsiasi forma diventa riconoscibile solo se è dissimile rispetto al substrato che le fa da sfondo cromatico. Gli etologi hanno scoperto che nei predatori l’istinto alla caccia si attiva quando vengono visualizzate determinate “immagini di ricerca”, ovvero quelle forme e colori che stimolano immediatamente l’attività predatoria: solo i soggetti che rientrano in questo filtro mentale destano l’attenzione del cacciatore, mentre tutto il resto non suscita interesse e viene per così dire rimosso.
Il concetto di mimetismo va quindi inteso in maniera molto ampia, poiché comprende tutte quelle caratteristiche morfologiche, cromatiche e comportamentali a funzione protettiva, ma anche quelle che si basano sulla contraffazione dei segnali, che possono venire esibiti o imitati per il proprio vantaggio. Gli innumerevoli esempi di tale fenomeno offerti dalle più disparate specie animali hanno portato gli etologi a definire delle rigorose suddivisioni, distinguendo varie tipologie di mimetismo. Tali mutamenti strutturali e cromatici si sono lentamente evoluti grazie all’azione delle forti pressioni selettive che operano in natura, quali le mutazioni e le ricombinazioni genetiche: premio finale la sopravvivenza e la riproduzione. Le ferree regole che scandiscono il ciclo naturale – per cui ad un’azione ne segue un’altra uguale e contraria – hanno così “premiato” quei soggetti che con le loro caratteristiche mimetiche sono riusciti ad eludere i predatori sempre in agguato o che, a loro volta, sono diventati predatori adottando sofisticati travestimenti per ingannare le prede. C’è poi anche chi adotta dei meccanismi “attivi” di protezione, come i Cefalopodi (polpi, seppie, calamari), i quali hanno evoluto sistemi mimetici ancora più sofisticati, essendo in grado di mutare i toni e l’intensità dei propri colori grazie a particolari organi cutanei a forma di stella, i cromatofori, che – a seconda degli stimoli che l’animale riceve – contraggono o dilatano il pigmento in essi contenuto, regolando l’intensità cromatica della cute in una notevole gamma di tinte.
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Fra i Pesci i maestri nel cromatismo variabile sono i pesci piatti (Pleuronettidi), come le sogliole, in grado di imitare anche fondi artificiali di vari colori, o le razze (Rajformi), che uniscono entrambe alla colorazione protettiva altri adattamenti per la vita bentonica, quali la particolare morfologia che consente loro di insabbiarsi e nascondersi ulteriormente.
Dasyatis americana e Urolophus halleri. (Foto Roberto Sozzani) Il mimetismo si può manifestare sia attraverso l’omocromia, la somiglianza dei colori, sia con l’omotipia, la somiglianza delle forme: molte specie di pesci si nascondono non solo imitando le forme dell’ambiente che li circonda, ma anche i movimenti ricorrenti nel mezzo liquido. Il pesce ago (Sygnathus acus) e il pesce trombetta (Aulostomus maculatus), grazie al loro aspetto filiforme, passano inosservati galleggiando a testa in giù in mezzo alle gorgonie o alle praterie di Posidonia e Zostera, oscillando come gli steli della vegetazione subacquea al ritmo delle correnti che li muovono.
Così pure si comporta il cavalluccio marino (Hippocampus hippocampus), delicatamente aggrappato con la sua coda prensile alle alghe o ai coralli, insieme ai quali si sposta dondolando al ritmo ondoso. Un altro Signatide dalle eccezionali caratteristiche mimetiche è l’ippocampo foglia (Phyllopterix eques): questo curioso animale vive al largo delle coste australiane all’interno dei banchi di sargassi – le lunghe alghe galleggianti che danno il nome all’omonimo mare – fra le cui fronde si cela grazie al corpo cosparso di variegate appendici fogliacee, che riproducono minutamente forme e colori dell’intricata massa vegetale che costituisce il suo mondo fluttuante.
Lo scopo del mimetismo criptico è quello di nascondersi ai predatori ed è quindi attuato da specie indifese, per le quali la capacità mimetica rappresenta l’unica possibilità di sopravvivenza. Quando invece l’animale è, al tempo stesso, imitatore e cacciatore, si parla di mimetismo aggressivo, fenomeno che si riscontra in tutte quelle situazioni in cui c’è l’imitazione di un modello a scopo predatorio. La strategia mimetica di passare inosservati per colpire le prede all’improvviso, evitando l’impegno di una caccia attiva, si è notevolmente perfezionata nella famiglia degli Antennaridi, Pesci Lofiformi comuni nei mari tropicali e subtropicali, detti pesci-rospo per il corpo tozzo e verrucoso, dalle pinne pettorali semiprensili a forma di braccio, con le quali si aggrappano al substrato confondendovisi.
La particolare tecnica di caccia messa a punto da questi pesci è davvero ingegnosa: hanno infatti trasformato il primo raggio spinoso della pinna dorsale in una sorta di lenza terminante con un’esca (detta illicio), spostandola sul labbro davanti agli occhi; quest’esca cefalica, grazie ad un’articolazione sferica su cui poggia, può essere abilmente manovrata dal pesce in guizzanti movimenti che sembrano quelli di un verme che si dimena. Attratti dal boccone appetitoso, i pesci che si avvicinano in realtà finiscono dritti nelle fauci dell’insolito “pescatore”. Particolarmente impressionanti sono gli agguati tesi dalla rana pescatrice (Lophius piscatorius), anch’essa appartenente all’ordine dei Lofiformi, un grosso pesce piatto dei fondali marini dell’Atlantico che può raggiungere i 2 m di lunghezza. Il lembo carnoso che fa da esca attira le prede verso la sua enorme bocca che, al momento opportuno, scatta all’improvviso risucchiando senza scampo anche prede di notevoli dimensioni, incapaci di resistere alla potente aspirazione prodotta dalla pompa bocca-branchie di questo temibile predatore.
In Synanceja verrucosa, uno Scorpenide dei mari tropicali, si sono sviluppate su tutto il corpo escrescenze e creste cutanee del tutto simili per forma e tonalità al pietrisco del fondo, con il quale il pesce riesce perfettamente a mimetizzarsi anche variando la composizione del substrato (lavico, corallino, prevalentemente costituito da alghe incrostanti, spugne o altro ancora). I Pesci Scorpenidi, che sono diffusi anche nei nostri mari e conosciuti con il nome di scorfani, sfoggiano spesso colori brillanti eppure straordinariamente mimetici, che li rendono difficilmente localizzabili da parte delle potenziali prede; sono dotati di spine dorsali provviste di ghiandole velenifere, la cui puntura è in grado di provocare la morte anche nell’uomo.
La doppia protezione – omocromia e veleno – messa in atto da questi animali è spiegabile come una possibile risposta difensiva ad un eventuale predatore che abbia scoperto il loro camuffamento, resasi necessaria come estrema risorsa in pesci cattivi nuotatori e costretti all’immobilismo sul fondo per catturare le prede. Quest’ultime, del resto, non periscono a causa delle loro temibili armi velenose, ma sono risucchiate dalle enormi bocche telescopiche che si aprono a tradimento sulle ignare vittime avvicinatesi a queste false “pietre”. Scorpaena plumieri e Scorpaena-plumieri. (Foto Roberto Sozzani) E’ interessante notare come due ordini completamente diversi, oltre che sistematicamente lontani, quali i Rajformi e gli Scorpeniformi – rispettivamente Condroitti ed Osteitti – abbiano entrambi adottato la strategia del veleno come ultima chance nel caso in cui la loro capacità mimetica non funzioni. I loro temibili aculei, infatti, non vengono mai usati a scopo offensivo ma lanciati contro un eventuale predatore o malcapitato che inavvertitamente li calpesti: è questo un chiaro esempio di convergenza evolutiva, cioè la medesima risoluzione di un uguale problema in animali diversi.
Il vero e proprio mimetismo si ha però quando all’occultamento si aggiunge l’inganno. E’ il caso, per esempio, del blennide dai denti a sciabola (Aspidontus taeniatus) che imita, sia nella livrea che nei movimenti, il pesce pulitore Labroides demidiatus. Quest’ultimo svolge un’accurata pulizia su varie specie di grandi pesci – murene, pesci chirurgo, labridi, ecc. – che sono suoi abituali clienti, liberandoli dai fastidiosi parassiti che li infestano e di cui, invece, esso si nutre, in una vera e propria simbiosi mutualistica nella quale entrambe le parti traggono il proprio vantaggio. Il blennide in realtà è un falso pulitore perché, approfittando della sua somiglianza col labride, strappa lembi di pelle o di pinne al cliente che lo ha lasciato avvicinare senza diffidenza. Un altro pesce pulitore dei mari indiani, Thalassoma bifasciatum, ha anch’esso un blennide-sosia, Hemiemblemaria simulus, Illusionisti in acquario L’infinita gamma di simulazioni presente nel mondo animale ha ragione di esistere solo in rapporto al modello da imitare, la natura, che non finisce mai di stupirci per varietà di forme e colori. Essi vengono quindi riproposti e riprodotti dagli animali nella loro incessante lotta per la sopravvivenza, unico fine dell’evoluzione. Si tenga quindi ben presente tale finalità al momento di introdurre in acquario specie dotate di spiccato comportamento mimetico: senza la possibilità di immergersi nel loro ambiente naturale, oppure nutrite in maniera inadeguata e private dello stimolo chiave della caccia, i meravigliosi colori degli abitanti delle barriere coralline o dei laghi africani perderanno il loro splendore e le loro peculiari caratteristiche adattative verranno meno. Ringraziamo per i testi e le foto fornite: | ||||||||||||||||||||||||||
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