Dove la foresta incontrò il mare
“Ci volle tutto il giorno per trovare l’ingresso di uno stretto che sembrava un piccolo fiume, nascosto da un promontorio, non c’è da stupirsi che non lo trovassimo in mezzo alla fitta vegetazione della foresta… Appena dentro il canale, le sponde diventarono rocce scoscese. Dopo due miglia circa di percorso tortuoso, uscimmo dentro a quello che sembra un lago ma di fatto è un golfo [il golfo di Kabui]”.
Sir Alfred Russel Wallace.
La storia inizia nell’arcipelago e parco marino di Raja Ampat, nella Papua Occidentale Indonesiana (il vecchio nome geografico di Irian Jaya cancellato da un referendum popolare). Siamo cioè all’interno di quell’area che ogni subacqueo dovrebbe considerare la sua Mecca, meta obbligata di un pellegrinaggio, da visitare almeno una volta nella vita. Qui la diversità dei pesci e dei coralli è la più alta mai osservata in mare, e il bello è che di questo si ha una percezione immediata. È evidente. Pesci e coralli sempre diversi ci si presentano davanti man mano che procediamo nell’immersione, e man mano che scendiamo nel piccolo, dai nudibranchi alle ascidie dai molti colori, il mondo che si rivela ai nostri occhi è qualcosa di difficile da raccontare con le parole. Bisogna andarci.
Tra le molte e diverse immersioni di Raja Ampat, quella a cui sono più affezionato di solito si svolge entro i 15 m di profondità, ma offre il meglio tra 6-7 m e la superficie. La visibilità difficilmente supera i 10 m, le correnti sono pura follia. E allora cosa c’è di tanto speciale? Seguitemi, immersione a The Passage.
Siamo nello stretto che divide la grande isola di Waigeo dalla più piccola isola di Gam, un vero e proprio fiume nell’oceano lungo 3,5 km e largo 25 m nei punti più stretti (una vasca di piscina, se non fosse per la corrente si attraverserebbe facilmente a nuoto). Già, la corrente: al centro dello stretto ricorda un toboga. La sua direzione cambia con l’andamento delle maree, nei momenti in cui rinforza è un vero e proprio fiume, ingovernabile. Fortunatamente l’immersione si svolge a ridosso delle sponde dello stretto, dove la corrente è sempre controllabile, e spesso nelle anse forma dei vortici, determinando inversioni locali nella direzione e addirittura delle zone di calma totale, inattese quanto piacevoli. Se ci manteniamo sul lato di Gam (sud) entrando nello stretto da est (dalla Kabui Bay), su un promontorio si apre una grottina. Proseguendo verso ovest abbiamo una larga ansa, poco profonda, piena di ghiozzi con il gambero e di nudibranchi. continuando ancora verso ovest, dopo una strozzatura del canale che determina un simpatico effetto a imbuto, con correnti forti e vorticose (conviene avvicinarsi molto alla parete), abbiamo due anse dove lo spettacolo è degno delle fantasie di Lewis Carroll (Alice nel Paese delle Meraviglie).
Dove la foresta incontrò il mare
Visto da sotto, dalla prospettiva del subacqueo, grandi colonie di corallo nero (Antipathes sp.) e gorgonie (Melithaea sp.) si staccano rigogliose dalle pareti, sporgendosi verso la corrente che apporta nutrimento. Siamo a 5 m di profondità ma è buio come se fossimo a -40 m… Rivolgiamo lo sguardo in alto, e, attraverso la superficie dell’acqua, realizziamo che siamo sotto la volta della foresta tropicale. Sembra quasi di sentire i versi dei moltissimi uccelli che la popolano (diventeranno realtà solo quando avremo le orecchie fuori dall’acqua). Banchi di pesciolini popolano questo che è a tutti gli effetti mare, anche se la nostra mente in modo inconscio continua a dipingerselo come fiume.
La foresta scende a incontrare il reef, il reef protende le ramificazioni delle gorgonie fino quasi alla superficie. I due amanti si sfiorano le dita, senza toccarsi, separati da un diaframma quanto mai evidente. La vicinanza tra i due ecosistemi che nel nostro immaginario rappresentano il mondo tropicale, la foresta pluviale e le formazioni coralline, ha qualcosa di magico, di altamente simbolico. Ci riporta indietro ai grandi esploratori ottocenteschi, a quel Wallace che percorse the passage fuori dall’acqua e non dovette trovarlo molto diverso da come lo vediamo noi; ancora più indietro, agli albori della vita. Stimola l’intelletto, commuove in un certo modo quando pensiamo alle ferite che la nostra specie è capace di portare a entrambi i sistemi. Due rumori sinistri, che fortunatamente Raja Ampat conosce appena ma che ho sentito spesso in Indonesia, il ronzio della motosega e l’esplosione subacquea della dinamite, echeggiano in qualche lontano compartimento della mia memoria e rafforzano il concetto.
Foresta pluviale e reef: due ecosistemi che interagiscono. La prima produce, attraverso la fotosintesi, un’enorme quantità di materiale organico che prima o dopo finisce in mare, è sminuzzato dagli organismi detritivori (che mangiano detrito, cioè materiale organico in decomposizione), come crostacei, echinodermi, vermi. I batteri vi crescono sopra, e sostengono una parte importante delle catene alimentari marine. In ultima analisi il reef intero ne trae beneficio, e ricambia smorzando il movimento dell’acqua e rallentando l’erosione. Se Raja Ampat ci offre ancora spettacoli degni di un pianeta allo stato brado, lo dobbiamo al fatto che le sue foreste e i suoi reef sono ancora in grande misura intatti, e funzionano bene. Si aiutano e si sostengono a vicenda, e a the passage arrivano a sfiorarsi per rafforzare la loro unione.
di Massimo Boyer