Lo chiamavano Scott’s Reef, un sistema di formazioni coralline in mezzo al nulla, a 250 km dalla costa più vicina, l’Australia occidentale.
Perso e dimenticato nel mezzo dell’oceano Indiano, era frequentato saltuariamente solo da pochi pescatori Indonesiani, abbastanza coraggiosi o incoscienti da avventurarsi fin qui per raccogliere oloturie, conchiglie e pescare squali per il mercato delle pinne. Attività che andavano avanti da 300 anni, senza miglioramenti tecnici notevoli e con un trascurabile impatto sull’ambiente.
La storia ebbe inizio nel 1998, anno di El Niño: l’innalzamento anomalo della temperatura dell’acqua qui colpì duro. La temperatura si mantenne alta per mesi, il corallo si ammalò, sbiancò, e alla fine sul fronte del reef, la zona più ricca, la mortalità oscillava tra l’80 e il 90% dei coralli. La diversità si era ridotta al 50%. Il reef di Scott sembrava morto.
Cosa succede a un reef dopo la morte dei coralli? Lo sappiamo bene, lo abbiamo visto molte volte nelle località più frequentate dai turisti: i coralli si ricoprono di alghe filamentose che monopolizzano lo spazio disponibile e bloccano la crescita degli altri coralli, rallentando il recupero. E da un reef isolato in mezzo all’oceano, che non ha altre formazioni coralline vicine da cui ricevere un apporto di uova e larve, ci si aspettava un recupero ancora più lento. Qualcuno sentenziò: morte dello Scott’s reef.
Ma i gufi avevano fatto i conti senza l’oste, che nella nostra storia è impersonato dai pesci erbivori. Pesci chirurgo, pesci coniglio, pesci pappagallo, pesci pipistrello: grandi mangiatori di alghe filamentose, purtroppo per loro sono anche commestibili, e facili da pescare perché vivono quasi sempre in acque superficiali. Dove si pesca con la dinamite i pesci coniglio sono tra i primi a scomparire, seguiti dagli altri erbivori. Ma sul reef di Scott, che i pescatori Indonesiani frequentano raramente e quando ci vanno portano via cose che possono conservare per lungo tempo durante la traversata, senza celle frigorifere, nessuno ha mai pescato pesci coniglio o pesci chirurgo. Il loro numero crebbe nei primi anni seguenti al bleaching, si fece più intensa la loro attività di pascolo, le alghe furono eliminate o mantenute basse, non riuscirono a crescere e a monopolizzare lo spazio. E i coralli ebbero modo di riprodursi, grazie a uova emesse e fecondate sul posto, che grazie all’aiuto dei pesci erbivori si svilupparono in giovani colonie con una rapidità inattesa e con una mortalità infantile insolitamente bassa, senza attendere apporti esterni.
E il reef rinacque. A 12 anni di distanza dal primo evento di bleaching, pur rallentato nella sua crescita da due cicloni, un’epidemia e un secondo episodio di sbiancamento, sia pure molto meno intenso, lo Scott’s Reef appariva tornato al primitivo splendore.
Adesso però ci saranno troppi pesci erbivori, diranno i più attenti. Manco per sogno, man mano che il corallo recuperava terreno la ritirata delle alghe toglieva loro il nutrimento, li indeboliva, e i predatori facevano il resto. Sì, perché in una comunità ben bilanciata, e il reef di Scott lo è, sono presenti anche molti predatori, cernie, lutianidi, carangidi, che tengono sotto controllo le popolazioni degli erbivori. E così il loro numero tornava normale.
C’era una volta il reef di Scott. E c’è ancora, o meglio, c’è di nuovo.
Un reef non è solo una scogliera corallina, un monumento invertebrato. È una complessa comunità biologica in cui tutti giocano il proprio ruolo: gli erbivori mangiano le alghe e ne controllano l’abbondanza, i carnivori controllano gli erbivori, i mangiatori di plancton raccolgono quello che l’oceano porta e lo convertono in materiale organico che rimettono a disposizione dei coralli e dei molti animaletti mangiatori di detrito, attraverso le loro feci. Niente va sprecato, tutto viene riciclato. Le interazioni tra le diverse specie si bilanciano e possono riparare i danni più estremi.
Questa è la storia di un reef dato per morto che ha trovato in se stesso le risorse per riprendersi. La Natura ci ha dato in questi ultimi anni molti esempi di recuperi inaspettatamente veloci, sempre in ambienti considerati remoti, dove l’impatto umano era trascurabile. Purtroppo, dove l’azione dell’uomo ha già sbilanciato il delicato equilibrio naturale, spesso un evento negativo (il bleaching, un’invasione di corona di spine, una malattia) ha conseguenze rovinose e il recupero è lento in modo esasperante.
Anche questa storia dovrebbe finire, come tutte le storie, con una morale… credo che sia facile ricavarla da quanto ho appena detto.
Il coral bleaching
Quando l’acqua si scalda troppo, le madrepore si ammalano e sbiancano, perdono il colore. In realtà la perdita di colore è il fenomeno visibile, a livello microscopico avviene che i tessuti dei coralli si liberano delle zooxantelle, le microalghe simbionti che normalmente ne colonizzano i tessuti.
La perdita di colore che noi vediamo è una conseguenza della coevoluzione. Tutti i tessuti dei coralli si sono evoluti in modo da essere perfettamente trasparenti, per lasciar passare la luce a beneficio esclusivo dell’alga simbionte. A colorare i coralli di giallo, beige, ramato, verde sono le zooxantelle, in loro assenza attraverso i tessuti trasparenti biancheggia spettrale lo scheletro. I polipi non sono ancora morti ma non possono sopravvivere a lungo senza il loro simbionte. Se la crisi termica si protrae a lungo di solito la morte dei coralli è inevitabile.
Diverse teorie hanno cercato di spiegare come avvenga la morte o la fuga delle zooxantelle, chiamando in causa popolazioni batteriche o tossine prodotte dal corallo sotto stress. Quello che è ovvio è che le zooxantelle abbandonano il corallo, ma alcune sopravvivono nell’ambiente in forma libera pronte a ricolonizzarlo alla fine della crisi.
Testo e foto di Massimo Boyer