Sono una studentessa e sto ora per iniziare il 2° anno di liceo classico, come tutti gli anni anche questo avevo da svolgere dei noiosissimi “compiti delle vacanze”, tra i quali c’era da leggere un libro di uno sconosciutissimo Konrad Lorenz, un libro di biologia, con un titolo biblico “l’anello di Re Salomone”. Questa lettura, che nella mia testa era stata messa tra le cose “ non voglio, ma devo ”, si è infine rilevata invece un grande spunto di creatività e ciò che è più meraviglioso su un argomento che non aveva mai suscitato il mio interesse prima d’ ora…i pesci. Tra i vari capitoli riguardanti taccole, oche, fringuelli, cani e gatti; ve ne erano tre dedicati interamente ai pesci e alla costruzione di un acquario molto particolare. Si tratta infatti di un acquario quasi interamente autosufficiente, a parte per il nutrimento degli animali e la pulizia della vetrina anteriore del recipiente. Preso, è bene iniziare con queste misure, un’ ampolla piuttosto grande o una vasca di medie dimensioni vi si ponga un consistente strato di sabbia ben pulita e vi si piantino alcune piante, è bene iniziare con la peste d’ acqua ( Elodea Canadensis ) e con la miriofilli ( Myriophyllum verticillatum ), dopodiché si riempi delicatamente il recipiente con acqua di rubinetto. Si posi l’ ampolla o vasca che sia su un davanzale di una finestra dove il recipiente possa ricevere molta luce. Sarebbe bene piantare solo dei germogli delle piante su consigliate poiché solo le piante che cresceranno nel recipiente in questione sapranno sopravvivere alle condizioni particolari del piccolo acquario, quelle piantate già grandi probabilmente moriranno. A questo punto bisogna aspettare che la vegetazione cresca e purifichi l’ acqua del rubinetto, sarà così possibile introdurre uno tutt’ al più due pesciolini non più grandi di 5 cm ( ricordo che ogni pesce a bisogno di all’ incirca 8 – 10 litri di acqua per sé ) e ben scelti, che possano adattarsi a quest’ ambiente e possibilmente che non si tratti di pesci che sommuovono il fondo. Alle piante si aggiungerà, nascendo quasi dal nulla, una qualche alga, come la Nitella flexilis; inoltre gli escrementi animali e i tessuti vegetali formeranno uno strato fangoso che si andrà a posizionare sul fondo fertilizzandolo. Attenzione né alghe , né fango dovranno essere tolti, come già detto sopra, infatti non si pensi a questo acquario come ad un normale acquario filtrato e tutto il resto dove piante e pesci vivono in un armonico quadruccio ; trattandosi di un’ acquario speciale e sicuramente molto più spontaneo potrebbe dare anche disturbo all’ occhio che punterebbe più su qualcosa dove non ci siano né alghe né fanghi e dove le cose crescessero dove si desidera e non così liberamente: insomma si tratterebbe più che altro di una piccola foresta autosufficiente…………….e solo questioni di gusti! Una situazione più ordinata e spettacolare si potrà avere solo in grandi vasche, come quella di Bernhard Hellman descritta da Konrad, dove viene riprodotto il lago di Altyaussee: vasca grande, assai profonda, fresca e non troppo esposta alla luce; con una vegetazione composta da erba verdi, muschio scuro dei fossi (Fontinalis ) e Chara; gli animali non microscopici erano presentati da alcune minuscole trote, qualche varone e un piccolo gambero fluviale. Comunque a dire il vero Lorenz consiglia come primo di questi acquari un’ ampolla dove a vegetare siano le prime piante citate e dove a pullulare siano gli organismi viventi catturati con un retino in uno stagno. Spero che quanto scritto in questo articolo possa aver risvegliato in voi che lo state leggendo un certo interesse, quel che basta per provare a creare un simile acquario……………..un acquario un po’ particolare! A chi interessa approfondire questo argomento riportiamo di seguito la parte recensita dalla nostra amica Virginia, del libro di Konrad. E’ interessante leggere come all’epoca l’acquariofilia era tanto simile, quanto diversa da quella attuale. Inoltre, Konrad riesce a descrivere varie situazioni in modo preciso e poetico allo stesso tempo.
UNA COSA CHE NON FA DANNI: L’ACQUARIO Non costa quasi nulla eppure è una cosa magnifica: coprite il fondo di un recipiente di vetro con un pugno di sabbia pulita e piantatevi alcune comuni pianticelle acquatiche, versateci sopra delicatamente alcuni litri d’acqua di rubinetto e ponete il tutto su di un davanzale soleggiato. Quando l’acqua si è purificata e le pianticelle hanno incominciato a crescere, mettetevi dentro alcuni pesciolini: o, ancor meglio, recatevi con un vasetto e con un acchiappafarfalle allo stagno più vicino, immergete alcune volte la rete, e raccoglierete una miriade di organismi viventi. In quella reticella per me è ancor oggi rinchiuso l’incanto della fanciullezza. Meglio se non si tratta di uno strumento impeccabile, con manico di ottone e borsa di garza; anzi, la tradizione vuole che ce lo si prepari da soli, a casa, in dieci minuti: il manico con un filo metallico incurvato alla bell’e meglio, la borsa con una calza, un pezzo di tenda o un pannolino. Con un simile aggeggio, a nove anni ho catturato le prime dafnie per i miei pesciolini, scoprendo così le piccole meraviglie dello stagno di acqua dolce che immediatamente mi sedusse con il suo fascino. Dopo la reticella venne la lente d’ingrandimento, dopo di questa un modesto microscopio, e con ciò il mio destino fu irrevocabilmente segnato. Chi infatti ha contemplato una volta con i propri occhi la bellezza della natura non è destinato alla morte come pensa Piaten, bensì alla natura stessa, di cui ha intravisto le meraviglie. E se ha davvero degli occhi per vedere, costui diverrà inevitabilmente un naturalista. Dunque voi fate passare la reticella fra le piante acquatiche del vicino stagno, riempiendovi di solito le scarpe di acqua e di fango. Se avete scelto bene il luogo e avete trovato uno stagno dove c’è roba che fa per voi, presto il fondo della rete sarà tutto un brulichio di piccole creature trasparenti. Rovesciate allora il contenuto della rete nel recipiente che avrete già prima riempito di acqua. Giunti a casa, vuotate delicatamente il vostro bottino nell’acquario e contemplate il piccolo mondo che ora si dispiega ai vostri occhi. L’acquario è infatti un universo, dove, come in uno stagno o in un lago naturale, insomma come in un qualsiasi luogo del nostro pianeta, creature animali e vegetali vivono insieme creando un equilibrio biologico. Le piante consumano l’acido carbonico espirato dagli animali e a loro volta esalano ossigeno. E però errato affermare che le piante respirano non come gli animali, ma «alla rovescia»: come gli animali esse inspirano ossigeno ed espirano acido carbonico, ma, oltre a questo processo e indipendentemente da esso, le piante in via di accrescimento assimilano l’acido carbonico servendosene per costruire la loro sostanza corporea, e l’ossigeno eliminato eccede quindi quello incorporato con la respirazione. Di questo eccesso di ossigeno vivono uomini e animali. Inoltre le piante sono in grado di assimilare i prodotti della decomposizione di altre creature viventi, reinserendoli nel grande ciclo vitale della materia. Ogni disturbo arrecato a questo ciclo, all’equilibrata convivenza di animali e vegetali, produce conseguenze dannose. Per esempio molti acquariofili, sia bambini sia adulti, non resistono alla tentazione di inserire nel recipiente, già pieno di animali fino al limite della tolleranza della sua parte vegetale, ancora questo o quel bel pesciolino. E proprio il nuovo pesciolino può essere la rovina di quel mondo che è l’acquario, così provvidamente difeso e amato. Dall’eccesso di animali deriverà infatti una mancanza di ossigeno; allora qualche organismo prima o poi soccomberà, e la sua morte potrà anche passare inosservata. Ma la decomposizione del suo corpo farà enormemente aumentare i batteri, l’acqua si intorbiderà, l’ossigeno diminuirà ulteriormente; allora moriranno altri animali, e la distruzione si propagherà con ritmo incalzante; alla fine anche la vegetazione comincerà a decomporsi, e quello che pochi giorni prima era stato un delizioso e limpido laghetto popolato di prospere pianticelle e di vivaci animaletti diverrà in breve tempo una disgustosa e puzzolente brodaglia. Da questi pericoli l’esperto acquariofilo si difende con l’aerazione artificiale dell’acqua. Tuttavia questo espediente tecnico sminuisce il pregio dell’acquario, che consiste proprio nell’autosufficienza biologica di quel piccolo universo, cui dall’esterno non occorre alcun aiuto, a parte il nutrimento degli animali e la pulizia della vetrina anteriore del recipiente: se infatti vi domina il giusto equilibrio, l’acquario non ha bisogno di essere pulito! Rinunziando ai pesci più grossi, specie a quelli che sommuovono il fondo, nessun danno si avrà se gli escrementi animali e i tessuti vegetali in decomposizione costituiranno a poco a poco uno strato fangoso; anzi, tanto meglio, perché questo strato penetrerà e renderà fertile il fondo, originariamente sterile. Nonostante il fango, l’acqua rimarrà inodore e conserverà la limpidezza cristallina di uno dei nostri laghetti alpini. Dal punto di vista biologico, e anche da quello estetico, è meglio inaugurare l’acquario in primavera, popolandolo solo di pochi ramoscelli in germoglio: solo le piante che vi sono cresciute riescono ad adattarsi alle particolari condizioni di quell’ambiente e a prosperarvi, mentre tutte le piante che sono state inserite nell’acquario già adulte vi perdono gran parte della loro bellezza. Anche se distano tra loro solo pochi centimetri, due acquari hanno un’individualità così distinta e ben caratterizzata come due laghi che distino tra loro molte ore di cammino. Ed è proprio questa la straordinaria attrattiva di un nuovo acquario, il fatto che, inaugurandolo, non si ha alcuna idea di come esso si svilupperà, dell’aspetto che assumerà una volta raggiunto il suo equilibrio particolare. Supponiamo di riempire contemporaneamente tre recipienti con lo stesso materiale, disponendoli l’uno accanto all’altro sulla stessa tavola e popolandoli tutti con peste d’acqua (Elodea canadensis) e miriofilli (Myriophyllum verticzllatum): nel primo recipiente crescerà, poniamo, una fitta giungla di peste d’acqua che soffocherà completamente i teneri miriofihli, nella seconda potrà accadere il contrario, e nella terza le due specie armonizzeranno, e come dal nulla sorgerà una splendida vegetazione di Nitellaflexilis, una graziosa alga verde tutta ramificata a mo’ di candelabro. E l’evoluzione dei tre acquari può essere tanto diversa da rendere diverse anche le proprietà biologiche, favorevoli o sfavorevoli all’insediamento di determinati animali; insomma, benché impostati nello stesso identico modo, i tre acquari svilupperanno ognuno il proprio universo particolare. Ci vuole un certo tatto e molto autocontrollo per permettere a ogni acquario di « trovare la propria fisionomia», perché anche gli interventi meglio intenzionati possono avere effetti deleteri. Naturalmente si può anche impiantare un acquario « elegante», con fondo artificiale e piantine ben distribuite ad arte; un filtro eviterà la formazione di fango e l’aerazione artificiale consentirà di tenervi molti più pesci di quanto non sarebbe possibile in condizioni più naturali. In questo caso le piante avranno una funzione puramente ornamentale, non essendo necessarie agli animali, cui l’aerazione artificiale fornirà abbastanza ossigeno per le loro esigenze vitali. E’ questione di gusti, ma per me un acquario è una comunità autonoma che si mantiene in vita grazie a un proprio equilibrio biologico. Altrimenti si tratta di una specie di stalla, cioè di un ambiente tenuto artificialmente pulito, igienicamente ineccepibile, che non è un fine in se stesso, ma solo un mezzo per contenervi determinati animali. Con una grande esperienza e con un delicato intuito biologico è però possibile, entro certi limiti, predeterminare il carattere generale del microcosmo che si svilupperà poi in un acquario, scegliendone oculatamente il fondo, la posizione del recipiente, la temperatura e la luminosità, e infine gli animali che lo popoleranno. In questo consiste l’arte dell’acquariofilo, in cui eccelleva il mio amico Bernhard Hellmann, perito tragicamente: in uno dei suoi acquari egli era riuscito a riprodurre perfettamente un ambiente naturale ben preciso, il lago di Altaussee; era una vasca grande, assai profonda, fresca, e non troppo esposta alla luce; la vegetazione nell’acqua cristallina consisteva di trasparenti erbe verde chiaro, il fondo sassoso era coperto di scuro muschio dei fossi (Fontinalis) e di graziosa Chara. Gli animali non microscopici erano rappresentati solo da alcune minuscole trote, da qualche varone e da un piccolo gambero fluviale: una popolazione ittica dalla densità non molto superiore a quella di uno stagno naturale. Bisogna far molta attenzione a questo aspetto se si vogliono conservare a lungo e far riprodurre animali acquatici assai delicati. La maggior parte dei pesci esotici ornamentali che vediamo negli acquari dei dilettanti ci facilitano il compito, perché anche in natura essi vivono in piccoli stagni non troppo puliti; l’ambiente dei piccoli stagni tropicali, riscaldati dal sole in modo intenso e uniforme, si può facilmente riprodurre presso una qualunque finestra esposta a sud con un po’ di riscaldamento elettrico, certo più facilmente di qualunque tipo di habitat delle acque nostrane. E questo il solo motivo per cui è incomparabilmente più difficile allevare pesci dei nostri laghi e torrenti che non pesci tropicali. Ora comprenderete perché vi ho consigliato di raccogliere i primi abitanti del vostro acquario dallo stagno più vicino e con la reticella tradizionale. Fra tutte le centinaia di acquari che ho posseduto la mia particolare preferenza va sempre all’acquario più comune, più economico e per così dire più banale, perché le sue pareti racchiudono la comunità vivente più naturale e più perfetta. Davanti all’acquario si può star delle ore assorti in fantasticherie, come quando si contemplano le fiamme del caminetto o le rapide acque di un torrente. E si imparano molte cose durante questa contemplazione. Se gettassi su di un piatto della bilancia tutto ciò che ho imparato a comprendere in quelle ore di meditazione di fronte all’acquario, e sull’altro tutto ciò che ho ricavato dai libri, come rimarrebbe leggero il secondo! DUE PREDATORI NELL’ACQUARIO Nel mondo dello stagno vivono alcuni terribili predatori, e nell’acquario la lotta per l’esistenza si dispiega ai nostri occhi in tutta la sua spietata crudeltà. Se si introduce nell’acquario una popolazione eterogenea, ma non troppo numerosa, si avrà presto occasione di assistere a questa lotta spietata, perché fra i nuovi arrivati ci sarà probabilmente anche la larva di un insetto acquatico, il Dytiscus! Tenendo debito conto delle rispettive dimensioni, la voracità e la crudeltà raffinata di questo animaletto eclissano quelle di celebri predatori quali la tigre, il leone, il lupo, la balena, il pescecane e la vespa: tutti sono agnellini in confronto alla larva dei Dytiscus! Si tratta di un insetto dal corpo slanciato, di circa sei centimetri di lunghezza, che può muoversi nell’acqua con grande velocità e sicurezza grazie alle larghe pinne setolose di cui sono munite le sue sei zampe. La testa larga e piatta ha un potente paio di mascelle a forma di pinze, che sono cave e servono sia per iniettare il veleno sia per l’ingestione del cibo. Questo animaletto se ne sta tranquillamente in agguato tra le piante acquatiche, e a un tratto, con un rapido balzo, si porta sulla preda, anzi sotto di essa, poi solleva fulmineo la testa così che la vittima finisce tra le sue mascelle. E per lui è « preda» tutto ciò che si muove o che comunque « sappia di animale». Mi è accaduto più volte, mentre me ne stavo tranquillamente immerso nell’acqua di uno stagno, di essere «mangiato» da una larva di Dytiscus, e anche per l’uomo l’iniezione del velenoso succo gastrico di questo insetto è estremamente dolorosa. Queste larve sono fra i pochi animali che, per così dire, digeriscono «fuori di casa». La secrezione ghiandolare che iniettano nella preda attraverso le mascelle cave ne trasforma tutto il contenuto in una pappa liquida, che poi passa nello stomaco attraverso quello stesso canale. Anche animali di notevoli dimensioni, come grossi girini o larve di libellule, se morsicati da una larva di Dytiscus, dopo qualche movimento di difesa si irrigidiscono, e l’interno del loro corpo, che nella maggior parte degli animali acquatici è trasparente, diviene opaco, come se fosse stato fissato in formalina; l’animaletto si gonfia, sembra in un primo momento aumentare di dimensioni, poi gradualmente non resta di lui che il flaccido involucro di pelle appeso alle micidiali mascelle, che alla fine viene lasciato cadere. Nell’angusto spazio di un acquario alcune grosse larve di Dytiscus divoreranno in pochi giorni tutte quante le creature che superino all’incirca il mezzo centimetro di lunghezza. E poi? Poi si divoreranno tra loro, se non l’avranno già fatto prima, e la meglio non spetta al più grosso o al più forte, ma a chi per primo riesce ad agguantare l’altro. Ho assistito varie volte all’aggressione reciproca e simultanea di due larve dalle dimensioni circa uguali e alla loro rapida morte per dissoluzione interna. Sono pochissimi gli animali che, anche sul punto di morire di fame, aggrediscono per divorarle creature della loro stessa specie e di uguale grandezza. So con certezza che ciò accade tra i ratti e alcune specie di roditori affini; dubito che accada tra i lupi, in base ad alcuni fatti eloquenti di cui parlerò in seguito. Invece le larve di Dytiscus divorano creature della stessa specie e di uguali dimensioni anche quando potrebbero disporre di altro cibo: e, per quanto io ne sappia, ciò non accade presso alcun’altra specie animale. Un predatore un po’ meno brutale e un poco più elegante è la larva della grossa libellula Aeschna, il cosiddetto «ago del diavolo», dagli stupendi disegni gialli e blu. L’insetto adulto è un vero signore dell’aria, un falco tra gli insetti. Se si versa il bottino ricavato dallo stagno in un recipiente d’acqua, per ripulirlo e liberarlo dai predatori più micidiali, si noteranno a volte delle grosse larve dalla forma slanciata, e si resterà subito colpiti dal loro strano sistema di locomozione. Queste snelle torpedini, per lo più screziate di verde e di giallo, avanzano a rapidi scatti, con le zampine strette contro il corpo; anzi, a prima vista, non si riesce a capire come si muovano. Osservandole poi separatamente, in un recipiente non molto profondo, si vedrà che sono… dei veicoli a reazione: si sprigiona cioè dall’estremità dell’addome un piccolo e potente getto d’acqua che per contraccolpo spinge avanti l’animaletto. Il tratto terminale dell’intestino è costituito da una vescica vuota abbondantemente provvista di branchie tracheali, e può così provvedere simultaneamente alla respirazione e alla locomozione. Le larve di Aeschna non vanno a caccia della preda nuotando, ma, assai più ancora del Dytiscus, l’attendono in agguato. Quando una possibile preda entra nel loro campo visivo, esse la fissano, voltando poi assai lentamente la testa e il corpo nella sua direzione e seguendone i movimenti. Ci sono assai pochi invertebrati che fissano in questo modo con gli occhi la loro preda. Al contrario delle larve di Dytiscus, quelle di Aeschna sono in grado di percepire movimenti anche assai lenti, come lo strisciare della chiocciola, che perciò cade assai spesso preda dell’Aeschna e raramente del Thtiscus. Con grande, grande lentezza, passo per passo, le larve si avvicinano furtivamente alla preda, e ne distano ancora tre o quattro centimetri, quando, d’un tratto… che è, che non è, la vittima èlì che si dibatte tra le loro mascelle. Se non si riprende la scena al rallentatore, si riesce soltanto a vedere che un qualcosa a forma di lingua è passato fulmineamente dalla testa della larva alla preda, trascinandola poi a portata delle gigantesche mascelle: a chi ha visto un camaleonte intento al pasto verrà subito in mente il rapidissimo movimento avanti e indietro della sua lingua viscosa. Il boomerang della Aeschna non è però la lingua, ma il labbro inferiore metamorfosato, composto di due falangi mobili e di una pinza da presa. Per il solo fatto che fissano con gli occhi la loro preda le larve di libellula ci sembrano stranamente «intelligenti»; e questa impressione si rafforza poi quando si osservano altre peculiarità del loro comportamento. A differenza delle larve di Dytiscus, con la loro indiscriminata voracità, queste larve, anche se affamate da varie settimane, non si avventano mai su animali che superino determinate dimensioni. Per mesi ho tenuto in una vasca delle larve di Aeschna assieme a dei pesci, e mai le ho viste aggredire o ledere una preda più grande di loro. E notevole che questi animali non si avventino mai su una preda già afferrata da un membro della loro specie e che si dibatte lentamente tra le sue micidiali mascelle, mentre invece agguantano al volo un pezzo di carne fresca infilzato su di un bastoncino che io agito di fronte ai loro occhi simulando il movimento dell’animale che si dibatte. Nel mio grosso acquario ci sono sempre alcune larve di Aeschna; esse impiegano molto tempo, più di un anno, per svilupparsi. Poi, un bel giorno d’estate, arriva il grande momento: la larva si arrampica lentamente su di un grosso stelo ed emerge dall’acqua; qui rimane a lungo e poi, come in ogni processo di muta, scoppia l’involucro esterno nella parte dorsale dei segmenti toracici e ne esce, completo, il magnifico insetto. Passano poi ancora parecchie ore prima che le ali raggiungano le loro piene dimensioni e si solidifichino attraverso un meraviglioso processo grazie al quale nelle sottili ramificazioni venose delle ali viene pompato a grande pressione un liquido che indurisce rapidamente. A questo punto si apre la finestra e si augura all’ospite del nostro acquario buona fortuna e buon viaggio nella sua esistenza d’insetto. SANGUE DI PESCE E’ strana la cieca fiducia con cui si dà credito ai proverbi, anche quando sono assolutamente falsi o ingannevoli: la volpe non è più furba degli altri animali da preda, ed è assai più stupida del lupo e del cane; la colomba non è affatto mite, e, quanto al pesce, la vox populi non diffonde che menzogne: esso ne ha quel «sangue di pesce» che si attribuisce alla gente stucchevole, né gode di quella salute invidiabile cui fa pensare l’espressione «sano come un pesce». Al contrario nessun gruppo dì animali è come i pesci tormentato dalle malattie infettive anche nello stato naturale di libertà. Non mi è mai accaduto che un uccello, un rettile o un mammifero appena catturati introducessero una malattia infettiva nella mia colonia animale; invece ogni nuovo pesce deve passare prima dall’acquario di quarantena, altrimenti posso scommettere cento contro uno che ben presto sulle pinne dei veterani dell’acquario compariranno i temuti puntini bianchi, segni dell’infezione del parassita Ichthyphtirius. E, per smentire un altro luogo comune, quali creature ne sanno di più sul bacio di alcuni pesci? Io conosco a fondo molti animali, ne conosco il comportamento anche nelle situazioni più intime e delicate, nell’estasi selvaggia della lotta e dell’amore, ma, a parte il canarino selvatico, non so proprio quale di essi possa avere un temperamento più ardente dello spinarello maschio in amore, o di un pesce combattente siamese, o di un pesce persico (Cichlidae): nessun animale viene così totalmente trasfigurato dall’amore, nessuno arde, in senso così letterale, dalla passione come uno spinarello o un pesce combattente. Chi potrebbe esprimere in parole, o riprodurre pittoricamente, quel rosso incandescente che rende diafani e trasparenti i fianchi dello spinarello maschio, quel verdeazzurro iridescente del suo dorso, dalla luminosità paragonabile solo a certe luci al neon, e, infine, quello squillante verde smeraldo del suo occhio? Secondo le regole del gusto artistico l’accostamento di questi colori dovrebbe dare un risultato orribile e stridente, e invece quale meravigliosa sinfonia producono se composti dalla mano del grande Maestro! Nel pesce combattente i colori non sono sempre così splendidi: il pesciolino grigio-bruno che se ne sta lì nell’angolo dell’acquario con le pinne ripiegate non lascia intravedere nulla di speciale, e solo quando un altro pesce, a tutta prima non meno scialbo, gli si avvicina e i due si guardano, esplode questo incredibile splendore, con la rapidità con cui sì fa incandescente il filo di una stufa elettrica allo scattare dell’interruttore. D’un tratto le pinne si spiegano a ventaglio, e ci si aspetta quasi di udire il rumore di un ombrello che si apre all’improvviso. Segue poi una danza di passione ardente, una danza che non ha nulla di giocoso, profondamente seria, una danza per la vita o per la morte. Infatti, stranamente, all’inizio non è ancora chiaro se la danza preluda al corteggiamento e all’accoppiamento o se debba invece evolvere, in altrettanto rapida transizione, in una lotta cruenta: i pesci combattenti non riconoscono il sesso di un loro simile a prima vista, ma solo dal modo in cui questo risponde ai movimenti di danza, che si svolgono secondo un rigido rituale istintivo ed ereditario. L’incontro di due pesci combattenti che ancora non si conoscono incomincia con la cosiddetta «imposizione», cioè con una prestigiosa esibizione in cui viene potenziato al massimo l’effetto di ogni macchia colorata e di ogni raggio iridescente delle meravigliose pinne. Di fronte allo splendore del maschio, la femmina, più modestamente agghindata, ammaina presto presto la bandiera, e questa espressione va intesa in senso letterale, in quanto l’animale ripiega le pinne, e, se non ha intenzione di accoppiarsi, se ne fila subito via. Se invece è ben disposta, si avvicina al maschio con un particolare atteggiamento di «sottomissione», un atteggiamento timido e insinuante che è tutto l’opposto di quello baldanzoso ed esibizionistico di lui. Allora incomincia una sarabanda amorosa che eguaglia per grazia e delicatezza, anche se non per la magnificenza, la danza bellicosa di due maschi. Se invece l’incontro avviene fra due maschi, si assiste a una vera orgia di reciproche esibizioni, che dal punto di vista estetico sono lo spettacolo più bello che ci può offrire un acquario. Ogni singolo movimento segue leggi ben precise ed esprime determinati significati «simbolici», come avviene nelle danze rituali siamesi e indonesiane. C’è una sorprendente somiglianza nello stile e nella grazia esotica con cui sia l’animale sia l’uomo esprimono la passione rattenuta: osservando quei gesti si comprende come ogni singolo movimento abbia dietro di sé una lunga storia, e come la sua forma finemente elaborata derivi da un rituale antichissimo. Mentre però è evidente che nell’uomo questo rituale è il prodotto della tradizione storica di un popolo, a tutta prima è un po’ meno evidente che anche nell’animale esso deriva dall’evoluzione filogenetica di comportamenti ereditari innati, propri alla specie. A questo proposito sono estremamente illuminanti le ricerche filogenetiche sull’evoluzione di tali forme ritualizzate di espressione e il confronto di simili cerimonie in specie affini. Sull’evoluzione filogenetica di questi movimenti sappiamo più che non su quella di tutti gli altri cosiddetti «istinti». Questo però è un altro discorso. Dopo questa digressione torniamo alla danza bellicosa del pesce combattente maschio, che ha un significato assai affine alle vanterie e alle ingiurie che si scambiavano gli eroi omerici, o alle tenzoni verbali che ancor oggi i nostri valligiani intrecciano all’osteria: lo scopo è di intimidire l’avversario, e al tempo stesso di farsi coraggio inculcando in se stessi la necessaria baldanza. Nei pesci la lunghezza dei preliminari, il loro carattere rituale, e soprattutto il grande sfoggio di colori e il dispiegamento delle pinne, tutti atti che mirano solo a intimidire l’avversario e non hanno alcuna finalità più concreta, nascondono al profano la minacciosa serietà della situazione. La bellezza fa apparire gli avversari meno incattiviti di quanto non siano in realtà, tanto che non li si crederebbe capaci di quell’aspro e disperato coraggio, così come non se ne crederebbero capaci i leggiadri e fernminei Malesi: eppure gli uni e gli altri sanno combattere fino all’ultima goccia di sangue. Le battaglie dei pesci combattenti conducono veramente assai spesso alla morte di uno degli avversari. Quando l’eccitazione è giunta al punto di provocare il primo colpo di spada, bastano pochi minuti perché compaiano ampi squarci nelle pinne, e dopo qualche altro minuto esse sono tutte lacere e strappate. Il metodo di attacco del pesce combattente, e di quasi tutti i pesci bellicosi, è proprio il colpo di spada, non il morso: il pesce spalanca a tal punto le mascelle che tutti i denti restano rivolti verso l’esterno, e così li conficca nel fianco dell’avversario con tutta la straordinaria forza del suo corpo muscoloso. L’impeto di quei pesci, lunghi pochi centimetri, è così forte e violento che si percepisce chiaramente il rumore dei denti quando, per caso, invece dell’avversario, vanno a colpire la parete della vasca. Diversissime da quelle dei pesci combattenti siamesi sono le battaglie dei nostri spinarelli europei. A differenza dei primi, gli spinarelli in amore ardono non solo alla vista di un avversario o di una gentil dama, ma anche quando si trovano in vicinanza del luogo scelto per nidificare. «A ogni spinarello il suo nido è bello»: ponetelo accanto a un altro maschio lontano dal nido e fuori della sua vasca abituale, ed egli non si sognerà neppure di lottare, facendosi anzi piccolo e brutto. Sarebbe impossibile servirsi degli spinarelli come pesci da combattimento, come fanno da secoli i Siamesi con i loro pesci combattenti. Solo quando ha trovato un nido lo spinarello può entrare in fregola e raggiungere la massima eccitazione sessuale, e quindi per assistere a una vera lotta fra spinarelli bisogna tenerli in un grosso recipiente dove due maschi costruiscano il loro nido. In ogni momento le velleità bellicose di uno spinarello sono inversamente proporzionali alla sua distanza dal nido. Quando poi vi si trova dentro, è preso da una vera e propria furia guerriera, per cui, incurante della vita, è capace di addentare perfino la mano dell’uomo. Invece, quanto più si allontana dal suo quartier ge. nerale, tanto più si indebolisce in lui l’istinto guerriero. Quando due maschi ingaggiano una battaglia, è possibile prevederne l’esito con buone probabilità: soccomberà quello che si trova più lontano dal nido. Nelle immediate vicinanze del nido anche lo spinarello più minuscolo sconfiggerà il più grosso, e le capacità bellicose dei singoli individui si misurano dall’estensione del territorio che riescono a tener libero da rivali. Quando uno spinarello soccombe, esso naturalmente corre subito a casa, e, altrettanto naturalmente, il vincitore imbaldanzito lo insegue furioso. Man mano però che si allontana dal suo dominio, scema proporzionalmente il suo coraggio, mentre aumenta quello del vinto fuggitivo. Giunto in vicinanza del proprio nido, questi guadagna nuove forze, e con un rapido dietrofront si avventa furiosamente sull’inseguitore. Comincia così una nuova battaglia che termina con assoluta certezza con la vittoria dello sconfitto di prima, e allora ricomincia l’inseguimento in direzione opposta. Si ripete così per più volte l’alterna vicenda, l’inseguimento reciproco tra un territorio e l’altro, e le oscillazioni pendolari diventano man mano meno ampie, finché si arrestano presso un «confine» che rimane più o meno costante e dove i due avversari si fronteggiano in atteggiamento minaccioso, come due misirizzi in posizione rovesciata, la testa in giù e la coda in su. Presentandosi rispettivamente il fianco, ed erigendo minacciosamente la spina ventrale verso quella dell’avversario, eseguono certi peculiari movimenti verso il basso, come se volessero prendere sul fondo del cibo, mentre in realtà questo gesto costituisce una ripetizione ritualizzata del movimento con cui sogliono scavare il nido. Si possono sempre, infatti, osservare questi movimenti in un pesce che non ha più il coraggio di lanciarsi all’attacco. A differenza del pesce combattente, lo spinarello non perde tempo in minacce prima di iniziare la battaglia: incominciano subito a piovere i colpi da entrambe le parti, con tale rapidità che l’osservatore non riesce quasi a seguirli. La grossa spina ventrale, che sembra tanto pericolosa, nella lotta svolge solo una funzione secondaria; eppure la mischia selvaggia degli spinarelli ha l’aria di essere assai più cruenta che non la danza guerriera ritualizzata dei pesci combattenti. Mentre però costoro, già dopo i primi colpi, presentano profondi squarci nelle pinne, i primi non subiscono alcuna lesione visibile a occhio nudo. E se nel nuovo Brehrn’ si legge che «la spina ventrale viene usata con tale violenza che spesso uno dei contendenti cade trafitto sul fondo. » ciò dimostra solo che l’autore non ha mai tentato di «trafiggere» uno spinarello: anche lo strumento più affilato non riesce talvolta a trafiggerne la dura pelle, neppure nei punti in cui non è corazzata. Ponete uno spinarello su una superficie morbida (che fornirà pur sempre una resistenza maggiore dell’acqua), prendete un ago appuntito (dieci volte più appuntito della spina ventrale di uno spinarello), provate a trafiggere il corpo dell’animale, e vedrete che la cosa non è affatto facile. Naturalmente in uno spazio ristretto lo spinarello più forte riuscirà infine a ferire a morte il più debole, incalzandolo senza tregua, lacerandogli le pinne e l’epidermide, ma in simili condizioni anche un coniglio o una tortorella riuscirebbe a conciare in quel modo l’avversario. I due pesci dal temperamento più focoso sono assai diversi tra loro nell’amore, non meno che nell’ira e nella lotta, pur avendo molti aspetti in comune. In entrambe le specie è il maschio, non la femmina, che si preoccupa di costruire il nido e si prende cura della prole, e solo quando è pronta la culla per i piccoli che nasceranno il futuro padre incomincia a pensare all’amore. Qui però finiscono le somiglianze e incominciano le differenze. La culla degli spinarelli si trova, per così dire, in cantina, quella dei pesci combattenti in soffitta: gli uni scavano una buca sul fondo dell’acqua, gli altri costruiscono il nido alla superficie; quelli si servono di filamenti vegetali e di una secrezione renale, questi di aria e saliva; il castello aereo del pesce combattente e delle specie affini consiste in un mucchietto compatto di bolle d’aria assai resistenti che emergono un poco dall’acqua e sono tenute assieme da uno strato di saliva. Già durante la costruzione del nido il maschio irradia i colori più splendenti, che acquistano ancor più in densità e iridescenza quando una femmina gli s’avvicina. Con la rapidità del fulmine esso scatta verso di lei, poi si ferma avvampando. Se la bella è disposta a seguire il richiamo della natura, lo dà a vedere assumendo un colore caratteristico attraversato da linee irregolari più chiare. Con le pinne strette al corpo nuota lentamente verso il maschio che, tremando di eccitazione, espande le sue pinne fin quasi a spezzarle e si mantiene sempre in posizione tale da presentare alla sua bella la meravigliosa vista dell’intero fianco. Dopo un istante esso incomincia a dirigersi verso il nido con ampi movimenti sinuosi, d’una grazia estrema. Che questo sia un gesto di invito è chiaro anche a chi lo vede per la prima volta. E parimenti è facile comprendere a prima vista il carattere «rituale» di questi movimenti guizzanti: tutto mira a potenziare al massimo l’effetto ottico del movimento, attraverso l’ondeggiamento sinuoso del corpo e l’agitazione delle pinne caudali, e a minimizzare invece tutto ciò che può contribuire al suo effetto meccanico. Il movimento significa dunque: «Io mi allontano, presto, vienmi dietro!». Il pesce però non va né lontano né in fretta, e inoltre continua a voltarsi verso la femmina che lo segue, seppure timida ed esitante. Così la femmina viene infine attirata sotto il nido di schiuma. E ora si svolge quella stupenda danza amorosa che certi acquariofili delle regioni alpine chiamano lo «Schuhplater»; il che senza dubbio dimostra una certa grossolanità, perché per la sua tenera grazia questa danza assomiglia piuttosto a un minuetto, mentre nello stile generale essa ricorda la danza in stato di trance che si può vedere in un tempio balinese. Una legge millenaria prescrive che in questa danza amorosa il cavaliere debba sempre presentare alla dama il proprio fianco meravigliosamente iridato, e questa debba invece sempre mantenersi ad angolo retto rispetto a lui. Il maschio non deve mai neppure intravedere il fianco della femmina, altrimenti diviene subito irascibile e perde d’un tratto tutta la sua cavalleresca gentilezza: presso questi, e presso molti altri pesci, l’esposizione del fianco ha un significato bellicoso e virile, e la sua vista provoca in ogni maschio un subitaneo mutamento di umore, per cui la passione più ardente si trasforma nell’ira più selvaggia. Non volendo allontanarsi dal nido, il maschio si muove in cerchio attorno alla femmina, e, poiché questa ne segue ogni movimento presentandogli sempre la testa, la danza amorosa si svolge in una zona circolare molto ristretta, proprio sotto il punto centrale del nido. I colori divengono poi sempre più sgargianti, i movimenti sempre più eccitati, i cerchi sempre più stretti, finché i due corpi giungono a toccarsi. Allora d’un tratto il maschio avvolge strettamente il suo corpo attorno alla femmina, la fa voltare con dolcezza sul dorso, e i due compiono tremando il grande atto della procreazione: essi emettono contemporaneamente uova e seme. Dopo l’accoppiamento la femmina rimane alcuni istanti come stordita, ferma sul dorso, mentre il maschio deve subito occuparsi di cose importanti. Le minuscole uova trasparenti come vetro sono notevolmente più pesanti dell’acqua, e tendono a cader subito in profondità. Ora, la posizione di accoppiamento è così saggiamente predisposta che le uova, cadendo, devono passar davanti alla testa del maschio, voltata in giù, e il giovane padre, che se ne accorge subito, si scioglie dolcemente dall’abbraccio e si tuffa alla ricerca delle uova, le raccoglie coscienziosamente in bocca l’una dopo l’altra e le porta subito nel nido, stipandole tra le bollicine d’aria. E deve proprio sbrigarsi, non solo perché non troverebbe più le piccole uova trasparenti una volta che avessero toccato il fondo, ma anche perché, se lasciasse passare anche solo un altro secondo, la femmina si riscuoterebbe e si metterebbe anch’essa alla ricerca delle uova, raccogliendole in bocca. Voi penserete certo che sia in ciò animata dalla buona volontà di aiutare lo sposo, e vi aspettereste di vederla riapparire ben presto alla superficie per stipare le uova nel nido; ma no, signori, aspettereste invano; queste uova non ricomparirebbero più, essendo state irreparabilmente inghiottite e divorate dalla madre. Il maschio conosce dunque assai bene la causa di questa sua fretta, e sa anche perché non deve più permettere che la femmina si avvicini al nido quando, dopo dieci-venti accoppiamenti, essa avrà esaurito la sua riserva di uova. Tutto diverso è il cerimoniale del cavalleresco pesce persico, della famiglia dei ciclidi: qui sia il maschio sia la femmina si prendono cura della prole, che in branco compatto segue i genitori, come una nidiata di pulcini. Compare qui per la prima volta nella scala biologica un comportamento che gli uomini ritengono moralmente assai pregevole: maschio e femmina rimangono strettamente uniti e conducono vita in comune anche dopo aver felicemente espletato il grande atto della procreazione. E non solo finché lo richiedono le esigenze della prole, ma, ciò che più conta, anche dopo. In generale per gli animali si parla di « matrimonio » già quando entrambi i sessi provvedono in comune all’allevamento della prole, anche se non sussiste un vero legame personale tra i coniugi; nei ciclidi però questo legame certamente c’è. Per poter stabilire in modo obiettivo se un animale riconosce personalmente il suo sposo bisogna provare a sostituirlo con un altro esemplare dello stesso sesso che si trovi nella stessa identica fase del ciclo riproduttivo. Se cioè, per esempio, in una coppia di uccelli si sostituisce una femmina che incomincia a covare con un’altra femmina già entrata nel successivo stadio psicofisiologico dell’allevamento dei piccoli, il comportamento istintuale di lei naturalmente non si accorderà con quello del maschio, e ne deriverà per forza una grave disarmonia; quindi non sarà possibile appurare se il maschio si sia veramente accorto che la femmina non è la sua moglie di prima, o se invece sia semplicemente infastidito dal suo comportamento «sbagliato». Naturalmente io avevo un grande interesse teorico ad appurare come si comportasse sotto questo aspetto il pesce persico, l’unico pesce che contrae un vero e proprio matrimonio, e per svolgere questo esperimento mi occorrevano innanzitutto due coppie della stessa specie che si trovassero anche nella stessa fase del ciclo riproduttivo. Riuscii a soddisfare questa condizione nel 1941, venendo in possesso di due coppie del magnifico grosso pesce sudamericano, Herichthys Eyanoguttatus, che significa «pesce eroico dalle macchie blu». Il nome è pienamente giustificato: sul nero sfondo vellutato le macchie blu turchese formano un intricato mosaico di una bellezza davvero sconvolgente; e una coppia di questi pesci intenta alla cova mostra, anche di fronte all’avversario più imponente, un coraggio tale che certamente ne giustifica il nome. Quando ne entrai in possesso, i miei cinque giovani pesci di questa specie non erano né maculati nè eroici. Dopo alcune settimane di sostanzioso nutrimento e di rigogliosa crescita in un grande acquario soleggiato, un giorno comparvero le macchie blu e, proprio simultaneamente, il coraggio in uno dei due maschi più grossi, che prese possesso dell’angolo anteriore sinistro della vasca, scavò un profondo buco per il nido, e incominciò a preparare, per potervi poi deporre le uova, una grossa pietra liscia, ripulendola accuratamente dalle alghe e dalle altre impurità che vi si erano depositate. (Fin da prima avevamo posto le pietre adatte agli angoli della vasca). Gli altri quattro pesci se ne stavano ansiosi in un gruppetto compatto all’angolo destro posteriore in alto. Già però il giorno seguente uno di questi, più minuto, aveva cominciato a indossare il suo abito di gaia, e la pettorina di velluto nero, priva di macchie, lo rivelò come una femmina. Il maschio si affrettò subito a portarsi a casa la sua bella con un cerimoniale assai simile a quello dello spinarello e del pesce combattente. La coppia ora se ne stava sopra la pietra che albergava il nido, difendendo aspramente il proprio territorio. Gli altri tre pesci avevano poco da stare allegri, e ci volle proprio l’eroismo cui accenna il loro nome perché alcuni giorni dopo il secondo pesce grosso,facendosi coraggio, conquistasse l’angolo destro anteriore in basso. Ora i due maschi si fronteggiavano ostili, come due signorotti nemici nel loro castellaccio. Il confine passava più vicino al dominio del secondo pesce, quello che era entrato in fregola più tardi, e la cosa è comprensibile se si pensa che questo, avventurandosi fuori del suo angolo, trovava due avversari pronti a saltargli addosso, anche se la femmina aggredisce con meno violenza del maschio. Il maschio solitario, che chiameremo semplicemente numero due, continuava ciononostante ad avventurarsi nelle acque extraterritoriali circostanti il suo regno, cercando di indurre la femmina del numero uno a seguirlo nel suo nido. Ma i suoi sforzi erano sempre vani, e non gli procuravano altro che pesanti colpi d’ariete nel fianco indifeso da parte della femmina del numero uno, quando esso cercava di sedurla esibendo il proprio fianco. La situazione si protrasse inalterata per parecchi giorni. A questo punto sembrò annunciarsi un finale roseo con duplici nozze, perché anche una seconda femminuccia indossò l’abito da sposa. Invece non accadde nulla di simile. Il maschio numero due non prestò alcuna attenzione a questa nuova femmina entrata in amore, e lei dal canto suo non voleva saperne di lui, e cercava invece ripetutamente di accostarsi al maschio numero uno: ogni volta che questi si dirigeva verso il proprio nido, la numero due lo seguiva appunto nell’atteggiamento di una femmina che viene condotta a casa; si sentiva cioè «attirata nel nido» ogni volta che il maschio vi si dirigeva, incurante di lei. La moglie sembrava rendersi ben conto della situazione, poiché ogni volta, al suo avvicinarsi aggrediva furiosamente l’intrusa; il maschio invece l’attaccava, sì, ma molto blandamente. Era come se il maschio e la femmina numero due non esistessero neppure l’uno per l’altro; entrambi avevano occhi solo per il membro felicemente sposato dell’altra coppia, il quale a sua volta non si curava minimamente di loro. La situazione si sarebbe prolungata ancora a lungo, se io non fossi intervenuto, ponendo il maschio e la femmina numero due in un altro acquario, esattamente identico al primo. Separati dall’oggetto del loro amore non ricambiato, i due incominciarono pre.sto ad accorgersi l’uno dell’altro e formarono una coppia. Dopo pochi giorni le due coppie deposero le uova, proprio alla stessa ora. Avevo così ottenuto quel che volevo, due coppie di ciclidi nella stessa identica fase del ciclo riproduttivo. Poiché tenevo moltissimo a quella razza di pesci, già rara anche allora, per fare il mio esperimento attesi che i figli delle due coppie fossero già cresciuti, in modo da poter sopravvivere anche in caso di una totale rottura coniugale fra i genitori. A questo punto scambiai le due femmine. Il risultato fu ambiguo, e non mi permise di stabilire in modo univoco se il pesce riconosce personalmente la sua femmina; dei fatti che seguono posso solo dare un’interpretazione che a molti sembrerà azzardata, e che necessita di ulteriori conferme sperimentali. Dunque, il maschio numero due accettò la femmina numero uno appena gli fu posta accanto. ho però l’impressione che la sostituzione non gli fosse affatto passata inosservata, poiché al cambio della guardia e a ogni incontro con la femmina i suoi movimenti mi sembravano più focosi e più intensi di prima. Dal canto suo la femmina aderì immediatamente al cerimoniale del maschio e senza difficoltà assunse le proprie mansioni nella cura della prole. La cosa però, secondo me, non ha un gran significato, perché le femmine di questa razza, in questa particolare fase del ciclo riproduttivo, sono tutte concentrate sui piccoli, un po’ come le galline all’epoca della cova, e il maschio non presenta per loro alcun interesse, se non come difensore della famiglia e come momentaneo sostituto nelle cure parentali. Nell’altro acquario, dove avevo presentato la femmina numero due al maschio numero uno e ai suoi piccoli, le cose andarono in modo del tutto diverso. Anche qui la femmina non ebbe occhi che per i piccoli: si diresse subito verso il loro branco, si pose sopra di loro e, resa inquieta dal cambiamento, cominciò a raccoglierli ansiosamente attorno a sé, proprio come la femmina numero uno aveva fatto nell’altro acquario. Ma, mentre il maschio numero due aveva accolto con giubilo la nuova compagna, il numero uno si tenne in atteggiamento diffidente presso il branco dei piccoli: non si considerò affatto esonerato dalla sua funzione di custodia, e un istante dopo inferse all’ignara femmina un furibondo colpo nel fianco indifeso. Alcune scaglie argentee cominciarono a fluttuare verso il fondo, simili a falde di mica, e io dovetti tempestivamente intervenire a salvataggio della femmina, che altrimenti sarebbe morta scorticata nel giro di pochi minuti. Che cosa era accaduto? Be’, il pesce che aveva ricevuto la femmina più bella, quella che già aveva corteggiato in precedenza, era soddisfatto del cambio. L’altro invece, cui era stata tolta la bella moglie e sostituita con una dama da lui già rifiutata in passato, era, si potrebbe dire non a torto, furibondo. E, si noti, ora l’aveva aggredita molto più violentemente di quanto non avesse fatto prima, in presenza della sua legittima consorte. Pur non potendolo giurare, credo proprio che anche il maschio numero due, quello che ci aveva guadagnato nel cambio, avesse notato la differenza. Forse ancora più interessante e più affascinante del comportamento amoroso di questi singolarissimi pesci è per l’osservatore il modo in cui si prendono cura della prole. Chi ha osservato questi animali non dimenticherà mai la vigile attenzione con cui custodiscono il nido, provocando, come gli spinarelli, una continua corrente di acqua fresca, per tutto il tempo in cui la culla contiene uova o pesci molto piccoli; né mai dimenticherà i loro militareschi turni di guardia, e, più tardi, quando i piccoli sono già in grado di nuotare, l’amorosa sollecitudine con cui guidano il piccolo branco obbediente. La scena più graziosa è quella dei piccoli, già in grado di nuotare, che la sera vengono messi a dormire: ogni giorno, per parecchie settimane, i piccoli all’imbrunire vengono ricondotti nella cavità dove hanno trascorso la prima infanzia; la madre si pone sopra al nido e con determinati movimenti attira i figliolini verso di sé. Nel bel pesce gioiello, con macchie azzurre iridescenti (Hemichromis bimaculatus), le ingemmate pinne dorsali della femmina svolgono una funzione particolare, muovendosi su e giù a ritmo assai serrato, mentre le macchie blu iridescenti lampeggiano come un eliografo. A questo segnale i piccoli si avvicinano, taccogliendosi sotto la madre che li invita a entrare nel nido. Nel frattempo il padre esplora tutta la vasca alla ricerca di eventuali ritardatari: se li trova, non perde tempo a chiamarli, limitandosi semplicemente ad aspirarli nella sua cavità orale, e dirigendosi poi verso il nido dove li soffia fuori. I piccoli cadono immediatamente sul fondo e lì rimangono: grazie infatti a un provvido gioco di riflessi, la vescica natatoria dei piccoli ciclidi addormentati si contrae così fortemente da divenire assai più pesante dell’acqua, ed essi quindi se ne rimangono sul fondo simili a piccole pietre, come accadeva quando erano neonati, e la loro vescica non era ancora piena di gas. Questa stessa reazione del «diventar pesante» si verifica anche quando uno dei genitori prende in bocca un piccolo. Senza tale meccanismo riflesso il padre non potrebbe tenere in bocca tutti i figlioletti quando va a cercarli la sera. Una volta, proprio durante uno di questi trasporti serali dei piccoli ritardatari, un pesce gioiello si comportò in modo da lasciarmi stupefatto. Ero venuto in istituto nel tardo pomeriggio, al crepuscolo, e volevo dar presto qualcosa da mangiare ad alcuni pesci che quel giorno non avevano ancora ricevuto nulla; tra l’altro anche a una coppia di pesci gioiello che stava allevando la prole. Avvicinandomi alla vasca vidi che quasi tutti i piccoli erano già nel nido, gelosarnente sorvegliati dalla madre, che non si mosse per prendere il cibo neppure quando gettai nell’acqua dei pezzetti di lombrico. Invece il padre, che tutto eccitato percorreva l’acquario in lungo e in largo alla ricerca dei piccoli dispersi, si lasciò attirare dalla coda di un bel vermicello (per motivi ignoti tutti gli animali che si nutrono di vermi preferiscono la coda alla testa), distogliendosi così dalla sua occupazione. Si avvicinò dunque e afferrò il verme, che però, date le sue dimensioni, non riuscì a inghiottire subito. Mentre lo stava masticando a piena bocca, vide uno dei suoi piccoli che si era smarrito e nuotava da solo per la vasca. Come fulminato guizzò via, raggiunse il piccolo e lo prese nella bocca, che era già assai piena. Era un momento emozionante: il pesce aveva in bocca due cose diverse, una delle quali doveva finire nello stomaco, l’altra nel nido. Che cosa sarebbe accaduto? Confesso che in quel momento non avrei dato un soldo per la vita del pesciolino. Invece accadde una cosa veramente incredibile: il pesce padre se ne rimase immobile, con le guance gonfie, ma senza masticare. Se mai ho visto un pesce riflettere, è stato proprio quella volta. Che cosa straordinaria: un pesce che vive una vera e propria situazione conflittuale, né più né meno di un uomo, e che se ne sta lì immobile, senza via d’uscita, incapace sia di avanzare sia di retrocedere! Per molti secondi il padre se ne stette lì bloccato, e si poteva comprendere tutto ciò che accadeva in lui. Poi risolse il conflitto in modo degno della più grande ammirazione: sputò fuori tutto il contenuto della bocca; il verme cadde sul fondo, e così pure il piccolo pesce gioiello, divenuto pesante per la reazione sopra descritta. Allora il padre si rivolse decisamente al verme, che divorò con gran calma, senza però perdere d’occhio il suo piccolo, che giaceva «obbediente» sul fondo. Quando ebbe finito, aspirò il piccolo e lo portò a casa dalla mamma. Alcuni studenti, che avevano assistito all’intera scena, si misero come un sol uomo ad applaudire.
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Questo magnifico brano, riportato su uno dei miei libri delle medie, ha gettato semi e ha fatto sì che diventassi biologa.
Ancora adesso mi lascio affascinare dai tre minipond che ho in giardino, tutti e tre diversi e pieni di vita, senza filtri né controlli.