Il successo di questo splendido pesce, lo scalare, importato per la prima volta in Europa nel 1909, non conosce declino. Anzi, più gli acquariofili conoscono lo Scalare e più desiderano ospitarlo nel loro acquario e nuove varietà, apparse nel corso degli ultimi anni, ne accrescono il favore degli appassionati. Ripercorriamo la sua storia e approfittiamone per aggiornare i criteri per il suo allevamento e la riproduzione. Esattamente 92 anni fa, nel 1909, venivano importati in Europa (Amburgo, Germania), ad opera di Siggelkov, i primi scalari destinati al mercato acquariofilo. Il successo fu immediato, anche perchè gli acquariofili aspettavano da tempo l’arrivo del “pesce dalla forma strana e dalle pinne esagerate”. Gli scalari diventarono ben presto la cartina al tornasole dell’esperienza degli allevatori. Le aziende che operavano nel settore utilizzarono la presenza di Pterophyllum scalare nelle proprie disponibilità come sinonimo di esperienza e professionalità. Il primo a descrivere la specie era stato lo scienziato tedesco Lichtenstein nel 1823: lo aveva chiamato scalare a causa degli innumerevoli “scalini” che compongono la pinna anale e dorsale. Il primo nome completo fu Zeus scalaris. Subito dopo venne chiamato Platax scalaris (Cuvier, 1831) ed infine, grazie all’istituzione da parte di Heckel, nel 1840, del genere Pterophyllum (a forma di foglia), Pterophyllum scalare. Dal Brasile alla CaliforniaNella descrizione del genere, Heckel fece alcune considerazioni sul materiale ricevuto da Lichtenstein: “L’autore ha temporaneamente posto il pesce, di cui ha trovato solo un esemplare mutilato…nel genere Platax. In effetti, la sua forma somiglia molto ai pesci appartenenti a questo genere, ma la conformazione dell’osso faringeo non lascia dubbi rispetto alla posizione sistematica da attribuire a questo pesce. Oltretutto nessun Platax vive in acque dolci”. Nel1862 Gunter accordò il nome della specie a quello del genere trasformando scalaris in scalare (Pterophyllum è un nome di genere neutro). L’area di diffusione naturale dello scalare è estremamente ampia. Comprende gli affluenti secondari del Rio delle Amazzoni, dalla Guyana al Venezuela, dal Brasile al Perù. Studi anche recenti hanno dimostrato che questo areale si è modificato negli anni a causa di inserimenti arbitrali in ambienti non specifici ad opera, molto probabilmente, di acquariofili con scarsa sensibilità ambientale. Ad esempio, negli Stati Uniti (California, Florida, Kentuky) sembrano esservi diverse popolazioni ben acclimatate di scalare. Non esistono dati certi sull’impatto che queste introduzioni hanno avuto sugli ambienti naturali. In natura gli scalari preferiscono frequentare anse e baie con scarsa corrente d’acqua e ricche di vegetazione. Vivono in branchi composti da 10 / 20 individui, spesso insieme con Mesonauta festiva. L’acqua in queste zone è caratterizzata da pochissimi minerali disciolti, pH acido e temperatura media intorno ai 28/30° C.
Il suo habitat in acquarioLe modalità di allevamento di questo splendido Ciclide, grazie alla sua estrema adattabilità, possono essere numerosissime, dall’acquario di comunità un po’ trascurato a quello monospecifico o geografico estremamente curato. Ovviamente più ci avvicineremo alle condizioni di allevamento ideali, più soddisfazioni riceveremo dagli organismi, a qualsiasi specie essi appartengano. Un gruppetto di 6 esemplari giovani necessita di una vasca sufficientemente grande (almeno 100x40x50 cm) ricca di piante e che consenta un ampio spazio per nuotare. L’ideale sarebbe disporre la vegetazione perimetralmente, lasciando la parte centrale libera per il nuoto. è importante inserire nell’arredamento della vasca radici di torbiera, tronchi e sassi (ovviamente non calcarei) posizionati in modo da rendere agevole la spartizione dei territori. L’acqua dovrà avere, soprattutto se se ne vuole tentare la riproduzione, i seguenti valori: 27/30° C, 5/10° dGH, 3/5° dKH; pH: 6.5/7, No3: non misurabili, NO2: meno sono, meglio è! Per il prefiltraggio usiamo della lana sintetica, per la parte biologica, invece, possiamo scegliere fra gli innumerevoli materiali filtranti che ci offre il mercato (cilindretti di terracotta, di ceramica o di vetro sinterizzato, graniglia di quarzo o di lava, sfere di plastica, spugne sintetiche, ecc.). Evitiamo di inserire nel filtro carboni attivi, resine a scambio ionico e zeoliti. Il carbone attivo va utilizzato solo in casi di reale necessità (dopo trattamenti curativi, per esempio). La pompa dovrebbe essere dimensionata in modo da non creare turbolenze eccessive. Per un filtraggio ottimale tutta l’acqua dovrebbe passare una volta ogni ora attraverso i materiali filtranti. Per un acquario da 200 litri è quindi sufficiente una pompa da 200 l/h. La torba e gli “estratti di torba”Un materiale che andrebbe sicuramente inserito nel sistema filtrante è la torba. è un materiale di tipo chimico in quanto influisce sulla “qualità” dell’acqua scambiando ioni. La torba è in grado di addolcire l’acqua acquisendo gli ioni responsabili della durezza totale e carbonatica, e ne diminuisce il pH liberando acidi. Questo materiale rappresenta, nell’allevamento dello scalare, la soluzione dolce e naturale a due grandi problemi: il primo è la necesità di ottenere un’acqua con pochi minerali disciolti, il secondo la necesità di ottenere un’acqua leggermente acida. Fra le sostanze che la torba cede all’acqua del nostro acquario, le più importanti sono gli acidi umici, gli acidi fulvici (predispongono alla riproduzione), l’acido tannico, alcuni ormoni, molti oligoelementi e sostanze fungicide. In ultimo, conferisce all’acqua quel bellissimo colore ambrato che da sicurezza ai pesci e che fa dell’acquario un ambiente molto simile a quello naturale. E importante usare torba specifica per l’uso in acquario, un po’ più dispendiosa di quella per giardinaggio, ma sicuramente priva di sostanze nocive per la vita degli organismi animali e vegetali presenti in vasca. In realtà abbiamo un modo per verificare se una torba è adatta o meno per l’uso in acquariologia. Prendiamo un po’ di torba, mettiamola in un bicchiere riempito con acqua osmotica ed aspettiamo un’ora circa. Quando l’acqua avrà assunto un bei colore ambrato, preleviamone un campione e misuriamone il pH. Dovrebbe essere compreso fra 3 e 4. Successivamente filtriamo l’acqua con un semplice colino ed aeriamola abbondantemente agitando il bicchiere o inserendovi una pietra porosa, collegata ad un aeratore, per qualche minuto. Rimisuriamone il pH che dovrebbe essere il medesimo della prima misurazione. Se risulta meno acido, quindi con un pH superiore a 4, significa che quella torba contiene acidiorganici volatili estremamente tossici per la vita dei pesci allevati. Dopo aver misurato il pH misuriamone anche i composti dell’azoto (ammoniaca, nitriti e nitrati) e i fosfati. Tutte queste sostanze dovrebbero risultare assenti. Se sono presenti è segno che la torba è fertilizzata e che non è quindi utilizzabile in acquario. Le stesse utilissime sostanze liberate dalla torba possono essere aggiunte all’acqua del nostro acquario utilizzando gli “estratti di torba” in vendita nei negozi specializzati.
La ricetta di un buon mangimeLo scalare, in natura, ha abitudini alimentari quasi esclusivamente carnivore. In acquario va alimentato con cibi di qualità e soprattutto – fondamentale per ottenere esemplari belli e maestosi – estremamente variati. Oltre ai soliti mangimi in scaglie somministriamo anche alimenti surgelati, liofilizzati e freschi. Ecco la ricetta di un “pastone” preparabile in casa da alternare con i suddetti cibi: – 500 g di cuori di pollo o tacchino; Dopo aver preparato tutti gli ingredienti (particolare cura andrà posta nel liberare i cuori e i fegatini dal grasso e dalle parti fibrose) si mette tutto in un frullatore da cucina e si omogeneizza per qualche minuto. In ultimo si aggiunge l’agar o la colla di pesce, si spalma il composto in sacchetti per congelare alimenti e si mette in freezer. Giorno per giorno spezziamo la dose di cui necessitiamo, la lasciamo scongelare e la somministriamo ai nostri pesci. Le dosi descritte sono puramente indicative e possono essere modificate a piacimento e secondo la reperibilità degli alimenti. Riproduzione: spesso una coppia non bastaPterophyllum scalare non ha dismorfismo sessuale, quindi non basta, come in altre specie, mettere nella vasca da riproduzione un maschio e una femmina per essere sicuri di ottenere una coppia. Inoltre, come gran parte dei Ciclidi, gli scalari non accettano un compagno o una compagna imposta, ma hanno bisogno di scegliersi. Per questa ragione è importante partire da un gruppetto di almeno 6 esemplari giovani: così saremo più o meno certi di ottenere almeno una coppia a maturità sessuale raggiunta. Quando la coppia si sarà formata si farà senza dubbio notare scegliendo un territorio nel quale stazionare, assumendo un atteggiamento molto aggressivo nei confronti degli altri scalari pur tollerando, in alcuni casi, i coinquilini appartenenti ad altri generi. Possiamo utilizzare alcuni trucchetti per stimolare la deposizione. Alimentiamo i nostri pesci per qualche tempo in modo molto parsimonioso. Non è crudele, se si considera che anche in natura i pesci attraversano dei periodi di estrema indisponibilità di cibo. Dopo 7 giorni circa di poco, pochissimo cibo, effettuiamo un cambio parziale molto sostanzioso (50% circa) utilizzando acqua con le medesime caratteristiche chimico-fisiche di quelle dell’acquario, ed iniziarne a somministrare cibo abbondante (sempre senza eccedere, ovviamente) e di altissima qualità. Questo è il momento in cui gli scalari mostrano il loro migliore aspetto, il contrasto fra i colori della livrea è massimo, le pinne sono tesissime. La coppia si apparta sempre di più, il loro corpo è scosso da tremori e fremiti. Iniziano a perlustrare l’acquario alla ricerca di un substrato su cui deporre le uova. Se il substrato per loro ideale si trova al di fuori del loro territorio, non esitano a scacciar via il legittimo “proprietario”. Trovata la superficie adatta iniziano a pulirla con la bocca, meticolosamente ed in perfetta sintonia. Solo ora, quando le papille genitali sono ben evidenti, possiamo finalmente stabilire il sesso dei componenti la coppia. Il maschio avrà una papilla genitale piccola ed appuntita, a forma di cono, quella della femmina sarà più grossa ed arrotondata, a forma di tronco di cono. Dopo aver pulito alla perfezione il substrato scelto, la femmina inizierà a sfiorarlo, per diversi minuti, con la papilla genitale, come se stesse facendo la prova generale del grande spettacolo della deposizione. Durante questa operazione il maschio è solo spettatore, la sua eccitazione è in fase crescente, il suo corpo è scosso da fremiti sempre più intensi e sempre più frequenti. Quando vedrà comparire le prime uova si affiancherà alla femmina per fecondarle. Questa scena è veramente affascinante: la femmina depone una fila di uova ed il maschio, dietro, le feconda. Il tempismo, la sincronia e la sapienza della coppia sono, in questa fase, di fondamentale importanza. Le uova deposte dalla femmina hanno tutte un “forellino” chiamato micropilo. Attraverso questa piccola apertura entra lo spermatozoo per mettere in comune la propria metà di patrimonio genetico. Il micropilo rimane aperto per meno di due minuti, dopo di che si richiude e non consente più la fecondazione. Il motivo della massiccia presenza di “uova bianche” nelle covate di coppie giovani è dovuta alla carenza di sincronia fra i partner. La deposizione sarà interrotta solo per scacciare eventuali coinquilini poco opportuni che cercano di superare la “fascia di sicurezza”. Questa fase dura un’ora e mezza/due, il numero di uova deposte varia – secondo l’età della femmina e l’alimentazione somministrata nei mesi precedenti – fra un minimo di 250/300 ed un massimo di 1000 con una media di circa 600 uova.
Una fase delicata: la cura delle uovaFinita la deposizione inizia la cura delle uova. Entrambi i genitori si occupano di ventilarle creando una corrente d’acqua con le pinne pettorali per tenere le uova pulite ed ossigenate. Alcune uova risulteranno non fecondate e scoloriranno verso il bianco. Le coppie più esperte toglieranno delicatamente le uova bianche, facilmente distinguibili da quelle buone che hanno un colore leggermente ambrato, con la bocca. Dopo circa 30 ore le uova inizieranno a schiudersi. Anche in questo momento i genitori hanno un ruolo attivo, raccolgono i “neonati” con la bocca, li “masticano” un po’e poi li risputano sullo stesso substrato o su un altro preventivamente pulito. Le larve appena nate hanno un filamento adesivo sulla testa che le terrà ancorate saldamente al substrato sino a quando non avranno consumato il voluminoso sacco vitellino. Il sacco vitellino è, essenzialmente, il tuorlo dell’uovo che fornisce nutrimento alle larve permettendo la fase finale della sviluppo che vede, come risultato ultimo, la trasformazione delle larve in pesciolini veri e propri sebbene di forma del tutto dissimile da quella dei genitori. In tutte le fasi della riproduzione, dalla deposizione in poi, è indispensabile mantenere uno stato di calma totale nell’ambiente che ospita l’acquario. Un gesto brusco, un rumore improvviso, possono causare nella coppia episodi di panico che scatenano, spesso, fenomeni di cannibalismo nei confronti della prole o delle uova. Dopo circa 3 giorni il sacco vitellino sarà consumato e gli avannotti inizieranno a nuotare, sempre sotto la strettissima sorveglianza dei genitori. Se un avannotto intraprendente si allontana dal gruppo dei fratelli, uno dei genitori lo rincorre, lo prende in bocca, lo mastica un po’ e lo sputa nel gruppo tenuto sotto controllo dall’altro genitore. E’ ora giunto il momento di iniziare a nutrire la nidiata degli avannotti. Nei primi giorni è indispensabile fornire loro infusori, spesso i nauplii di Artemia salina sono troppo grossi per i minuscoli pesciolini. Se non abbiamo la possibilità di iniziare una coltura di infusori, nei primi 4 o 5 giorni possiamo usare, come alimento sostitutivo, del tuorlo d’uovo sodo. E fondamentale usare la massima attenzione nel somministrare questo alimento, estremamente ricco di proteine ma, allo stesso tempo, altamente inquinante. Le somministrazioni di cibo saranno almeno 4 al giorno (meglio se di più).
E se i due non sanno fare i genitori…Man mano che passano i giorni si potrà diminuire la quantità di tuorlo d’uovo (o di infusori) e si potranno introdurre nella dieta i nauplii di Artemia salina appena schiusi. Dopo circa 30 giorni i piccoli inizieranno a cambiare la loro forma, diventeranno sempre più simili ai propri genitori. A questo punto si possono iniziare a somministrare i primi mangimi in scaglie polverizzati. Questo è quanto tutti noi vorremmo vedere quando due dei nostri scalari dimostrano la volontà di riprodursi, purtroppo non sempre le cose vanno in questo modo. Talvolta, a causa degli allevamenti intensivi, Pterophyllum scalare sembra aver perduto l’istinto delle cure parentali. In questi casi è indispensabile ricorrere all’allevamento artificiale”. Si preparerà una vasca da riproduzione, possibilmente del tutto spoglia, senza ghiaia o piante, un paio di piccole radici ed un buon filtro. In questa vasca ospiteremo la nostra coppia sino a quando la femmina non avrà finito di deporre ed il maschio di fecondare le uova. Spostata la coppia in un’altra vasca metteremo, a circa 3 cm dalle uova, una pietra porosa collegata ad un piccolo aeratore che simuli la lenta ma costante corrente che avrebbero prodotto i genitori con le pinne pettorali. Le uova bianche possono essere rimosse scalzandole con mano ferma per mezzo dell’ago di una siringa (NdR: In molti allevamenti che riforniscono il mercato acquariofilo si preferisce far schiudere le uova e allevare gli avannotti senza i genitori: ciò fa sì che “cattivi” genitori – cioè con scarse attitudini alle cure parentali – abbiano le stesse possibilità di trasmettere il proprio patrimonio genetico dei “buoni” genitori. Questo non avviene in natura, dove la progenie dei genitori inetti non avrebbe praticamente alcuna possibilità di raggiungere l’età adulta e quindi di perpetuare le caratteristiche negative dei genitori; per questo motivo sconsigliamo ai nostri lettori la pratica dell’allevamento artificiale, se non in casi di estrema necessità). Lo spazio disponibile e la salubrità dell’ambiente condizioneranno il numero degli esemplari che riusciranno a raggiungere dimensioni apprezzabili, e la bellezza degli esemplari diventati adulti. Questo articolo è stato pubblicato sul numero 14 – Novembre 1999 – della rivista -il mio acquario- la quale ha concesso tale ripubblicazione. Gabriele Russo |
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