L’uomo, non pago delle meraviglie della natura, spesso pretende di correggerla. E’ quanto accade per certi pesci colorati artificialmente, la cui livrea in natura non offre colori sgargianti, come nel casa Chanda, che arrivano invece nei nostri acquari coloratissimi. Come fa l’uomo, con il suo intervento, a “migliorare” la natura? E’ quali sono le conseguenze di questi artifici per i poveri pesci? Ecco svelato e documentato, il mistero dei pesci colorati. Comparsi quasi per gioco sul mercato acquariofilo sul finire degli anni Ottanta, i pesci colorati artificialmente costituiscono oggi un fenomeno commerciale vasto e inquietante. Innocuo trucchetto per vendere di più o inutile crudeltà? Fino a non molti anni fa, girando per fiere paesane e i mercati rionali era frequente imbattersi – specie nel periodo pasquale – in pulcini e anatraccoli colorati artificialmente con vistose e improbabili tinte pastello. A parte il dubbio gusto di simili trovate, la tintura era probabilmente innocua e prima o poi spariva con l’acqua o con il cambio del piumaggio. Oggi, l’accresciuta sensibilità della gente verso gli animali ha ridotto sensibilmente tale pratica, discerdibile quanto utile. Destinata, si spera, a scomparire del tutto. Quando la natura non basta E’ perciò quantomeno singolare che, tramontata la moda degli uccelletti colorati, si stia imponendo negli ultimi anni quella dei pesci colorati artificialmente per “vivacizzare” i nostri acquari. I primi protagonisti (meglio sarebbe forse chiamarli vittime) di questa discutibile iniziativa commerciale sono stati, manco a dirlo, i “Pesci-vetro” del genere Chanda che – come suggerisce il nome comune – affascinano per il loro corpo quasi completamente trasparente, ma ahimè, pressochè incolore se si eccettua una sottile striscia azzurrina sui bordi delle pinne dei maschi di alcuni specie. Commercializzati come “Chanda-color”, sul finire degli anni Ottanta sono comparsi nelle vasche dei grossisti e negozianti migliaia di esemplari colorati di verde, rosso blu, viola o giallo, talvolta anche bicolori. Ufficialmente provenivano da Singapore, ben presto però si scoprì che i pesci venivano in realtà pescati e “trattati” (con procedimento sconosciuto) in Thailandia, prima di essere esportati a Singapore e nel resto del mondo. Una dolorosa premessa: i thailandesi sono veri maestri nella “manipolazione” dei pesci, in articolari sono stati tra i primi a trasferire la tecnica dell’induzione ormonale – ideata e sperimentata con successo in acquacoltura – nell’allevamento dei pesci d’acquario.
Dagli ormoni alla…vernice Ciò permette loro di riprodurre in gran numero diverse specie “problematiche” come vari Labeo, Pangio, Botia, ecc.. Famosa è poi l’abilità dei thailandesi nel somministrare ormoni “coloranti” ai Discus e ad altri Ciclidi pregiati, che appena importati da Bangkok sono davvero spettacolari salvo, purtroppo, sbiadire inesorabilmente come una maglietta lavata in candeggina se viene a mancare loro il supporto ormonale di tanta effimera bellezza. Ma cosa c’entrano gli ormoni con i “color fish” di Bangkok? Nulla, in quanto questi pesci non sono costretti ad assimilare attraverso l’acqua o il mangime sostanze chimiche che ne esaltino oltre misura la livrea, bensì ricevono direttamente nel loro corpo dei coloranti artificiali. Quando ai “Chanda color” si aggiunsero via via i “Gymnocorymbus color”, le “Botia color”, ecc., aumentò di pari passo la mia curiosità nei confronti del misterioso procedimento usato dai thailandesi. Curiosità che riuscì finalmente a soddisfare in occasione di un viaggio di lavoro nel sud-est asiatico. Con una procedura degna di un servizio segreto (ci mancava solo che mi bendassero per non riconoscere la strada) fui condotto, grazie ai buoni auspici di un mio fornitore in una “farm” alla periferia di Bangkok, dove mi furono mostrati diversi vasconi per la stabulazione di Chanda selvatici. Con cortesia squisitamente orientale, il proprietario mi spiegò che per sopportare senza danni il trattamento i peci dovevano essere ben acclimatati e quindi stabulati in vasca per diversi giorni. L’attrezzatura per la colorazione era tutto sommato molto semplice: un piccolo tavolino di legno, una ciotola d’acqua prelevata da uno dei vasconi, una pezza di stoffa imbevuta d’acqua, barattolini con liquidi colorati e, “arma del delitto”, una comune siringa da insulina con ago molto sottile. Altrettanto semplice (all’apparenza!) il procedimento: i pesci, pescati a piccoli gruppi, transitavano nella ciotola da dove, a uno a uno venivano delicatamente prelevati dal “tecnico” (un serioso ragazzo dalla mano fermissima) e “siringati” sulla pezza umida dove erano adagiati, prima su un fianco e poi sull’altro. Le inoculazioni avvenivano all’attaccatura della pinna anale e di quella dorsale conferendo al pesce una sorta di “cornice colorata” lungo quasi tutto il corpo vista la rapidità di espansione del colorante sotto la cute.
Le conseguenze si vedono in seguito Al termine del trattamento i pesci venivano liberati in un vascone a parte; inizialmente intontiti (probabile la presenza di acido acetico o altri anestetico nell’acqua della ciotola), riprendevano in breve a nuotare senza apparenti danni. Il tutto si svolgeva molto rapidamente e, in meno di un’ora, alcune centinaia di “Chanda color” nuotavano formando macchie multicolore nella loro vasca. Avevo inizialmente accolto con molto scetticismo le assicurazioni del mio fornitore circa la scarsa pericolosità del trattamento, ma alla fine dovetti ricredermi. Purtroppo i guai, per i poveri animali, arrivano in seguito. I Chanda, in particolare, a causa delle manipolazioni cui sono sottoposto si ricoprono frequentemente di linfocisti, grumi biancastri di origine virale pressochè incurabili. Intere partite di Chanda arrivano già affette da questa malattia che può però manifestarsi anche diversi giorni dopo l’arrivo. I pesci colpiti divengono invendibili e destinati a una brutta fine, prospettiva cui non sfuggono del resto anche molti esemplari di altre specie, che muoiono nelle settimane successive al trattamento probabilmente per la tossicità del liquido colorante o l’imperizia di chi glielo ha inoculato. Va detto che questi liquidi vengono comunque espulsi gradualmente dal pesce, che con il tempo riacquisterà -spesso a caro prezzo!- la sua livrea originale sempre che non muoia prima. Un’acquariofilia seria e matura non ha certo bisogno di “color fish”. I nostri pesci tropicali sono già belli al naturale, anche quando la loro livrea non è delle più brillanti, ogni specie è il frutto di un longo e severo processo evolutivo, su cui l’uomo -in ambiente artificiale- può eventualmente intervenire con mezzi leciti anche se spesso discutibili (come la selezione genetica di certe razze e varietà). Insomma, se ci imbattiamo in pesci da colori “troppo belli per essere veri”, lasciamoli dove sono: la natura, senza bisogno di trucchi è già di casa nel nostro acquario! L’articolo e le foto sono state gentilmente concesse da Alessandro Mancini consulente editoriale della rivista “Il mio acquario” |